E’ stato recentemente presentato presso l’auditorium del Museo Provinciale “Sigismondo Castromediano” di Lecce il volume Per le Arti e per la Storia, un omaggio a Tonino Cassiano (Congedo Editore: Architettura e Città; N° 10; brossura, pp. 184, 21 x 29,7 cm, illustrato con numerose ill. in BN, Euro 28) a cura di Cazzato Vincenzo, Poso Regina e Vallone Giancarlo. L’opera è il frutto del lavoro di «Diciotto autori […] con ricerche originali e di alto valore scientifico» (http://www.congedoeditore.it/per-le-arti-e-per-la-storia-omaggio-a-tonino-cassiano.html). Nell’impossibilità oggettiva di farne una disamina a trecentosessanta gradi ci soffermeremo in questa analisi principalmente solo su uno dei diciotto saggi presenti perché segnalato con più attenzione proprio durante la presentazione. E’ quello di Clara Gelao ed è intitolato: Quando il restauro può cancellare la memoria: osservazioni sul portale laterale della Cattedrale di Otranto; la medesima è stata curatrice di mostre e autrice altrettanto prolifica di saggi e libri, già direttrice della Pinacoteca Provinciale di Bari “Corrado Giaquinto”; docente in master universitari, vincitrice del “Premio Marangelli” nel 2007 per il suo volume Puglia rinascimentale (http://www.cittametropolitana.ba.it/provinciaba/allegati/8296/CURRICULUM%20VITAE%20CLARA%20GELAO.pdf).
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Il contributo di C. Gelao affronta un aspetto in particolare, già bene esplicitato nel titolo del saggio medesimo, quello del restauro (moderno in questo caso) come momento della perdita di una parte della storia di un monumento. L’argomento è il portale laterale della cattedrale di Otranto, volto a settentrione, oggetto di restauri nel 2005. E’ proprio nel fare il confronto fra le foto precedenti quel restauro e l’attuale situazione che scaturiscono le considerazioni della studiosa. Va però segnalato subito per correttezza che il titolo lascia pensare a un’analisi critica del restauro architettonico nel senso più ampio del termine e invece, in realtà, oltre il confronto fotografico del prima e dopo quel restauro l’autrice non si spinge; il restauro del 2005 di fatto diventa così principalmente il pretesto per lo studio storico di quel portale. Il rapporto fra analisi storica e restauro architettonico è però questione molto delicata oltre che di un’attualità stringente perché chi si occupa del secondo sempre più spesso non esegue con correttezza i necessari, doverosi rilievi architettonici né, ancora più spesso, si dedica ad una ricerca e analisi storica appropriata. A questo si deve aggiungere un altro aspetto apparentemente secondario: ogni fase di restauro dovrebbe essere documentata con un adeguato rilievo, anche fotografico, che dovrebbe essere depositato negli archivi delle soprintendenze. Può poi però accadere paradossalmente, ed è accaduto, che proprio questi uffici periferici del MiBAC (Ministero Beni Ambientali Culturali) consentano con estrema difficoltà l’accesso ai loro archivi storici, interferendo negativamente sulla qualità della ricerca e quindi del restauro medesimo. Non è in ogni caso intenzione di quest’analisi affrontare la questione non facile della critica ai restauri architettonici, che inevitabilmente si deve fondare su una serie di strumenti (rilievi, interviste ai restauratori, analisi storica, conoscenza oggettiva del fare architettura, etc.) che frequentemente mancano in studi di questo tipo.
A differenza di altre recensioni, questa volta, per una maggiore fluidità di lettura si è deciso, se non in pochissimi casi, di non trascrivere i brani dell’autrice del contributo analizzato limitandosi così a indicare più semplicemente la pagina del saggio medesimo. Nelle trascrizioni (epigrafi, documenti), redatte e verificate con Enrico Spedicato, le abbreviazioni sono state sciolte inserendole in minuscolo, il resto del testo si è trascritto invece tutto in maiuscolo; per semplicità di lettura, infine, alcuni dati storici è stato necessario ripeterli in più parti dell’analisi. Detto questo non rimane che concentrarci su quella che è la parte principale del saggio, quella dedicata all’analisi storico-artistica del portale settentrionale della cattedrale di Otranto (fig. 1).
Fig. 1: Cattedrale di Otranto, facciata settentrionale, portale.
Per semplicità riassumiamo subito le conclusioni in merito alla storia del portale realizzato in pietra leccese e due tipi di marmi (pario e venato grigio). C. Gelao, dopo un’ampia dissertazione, colloca la parte in pietra leccese a un anno compreso fra il 1572 ed il 1579 (pp. 50-51) e tutta la parte marmorea in un periodo successivo al 1495 e prima del 1514 (pp. 57; 59); la studiosa ritiene, inoltre, che quella marmorea sia di fatto quanto rimane della porta maggiore della cattedrale e che quest’ultima sia stata spostata a decorare la porta laterale in cui è oggi nella seconda metà del Seicento allorché l’allora arcivescovo Gabriel Adarzo de Santander (Madrid, 1596 – Otranto, 1674, episcopato: 1657 – 1674) costruì, nella facciata principale, l’attuale porta monumentale datata 1674 (pp. 54-55). Queste e altre conclusioni sembrano però quantomeno discutibili. Vediamole nel dettaglio.
Gli stemmi e la datazione delle parti in pietra leccese
Fig. 2
Otranto, cattedrale, porta settentrionale in alto al centro, stemma pontificio di Gregorio XIII.
Fig. 3
Otranto, cattedrale, porta settentrionale in alto a sinistra, stemma reale di Filippo II.
Fig. 4
Otranto, cattedrale, porta settentrionale in alto a destra, stemma arcivescovile di Mons. Pedro de Coderos.
Fig. 5
Otranto, cattedrale, porta settentrionale, evidenziate in rosso le parti in pietra leccese; delimitate da linee blu invece le parti marmoree (tipo1: marmo venato di colore grigio; tipo 2: marmo pario di colore bianco). Il pezzo angolare in alto dello stipite a destra appare qui senza numero perché di natura dubbia anche se più vicino al tipo 2.
Come appena ricordato la datazione della parte in pietra leccese (esclusi due segmenti di architrave del medesimo materiale, p. 51, punto 3) sarebbe da collocarsi fra il 1572 ed il 1579 (pp. 50-51). A tali conclusioni la studiosa giunge sulla base degli stemmi sommitali della porta a cominciare da quello centrale più in alto relativo a papa Gregorio XIII, il cui pontificato iniziò nel 1572 e terminò nel 1585. Altro elemento di datazione che spiegherebbe il limite cronologico superiore l’autrice del saggio lo desume dallo stemma lapideo a destra identificato come quello dell’arcivescovo Pietro Antonio de Capua, in carica dal 1536 al 1579. In merito a quest’ultimo aspetto C. Gelao (p. 48, nota 12) corregge un altro studioso (C. Dell’Aquila, Cronotassi iconografica ed araldica dell’episcopato pugliese, Bari: Levante, 1984) che quest’ultimo stemma aveva invece assegnato a Fabrizio de Capua, zio e predecessore, quale arcivescovo otrantino, di Mons. P.A. de Capua.
Dal rilievo e dall’analisi architettonica del portale emergono però dati diversi da quelli esposti dalla studiosa. Prima di tutto l’opera reca una data incisa a cifre arabe «1582» collocata al centro della cornice della trabeazione che sormonta il portale. Altro dato molto rilevante è lo stemma a destra che C. Gelao riconosce come quello dell’arcivescovo P.A. de Capua. Così non è. Al centro di questo stemma, in alto, compare, infatti, non solo una stella a otto punte ma poi anche altre cinque formalmente analoghe alla prima collocate tre sopra e due sotto il sottile filetto che divide in due parti uguali la banda.
Fig. 6
Otranto, cattedrale, porta settentrionale, la data, «1582», incisa al centro della cornice.
Un’indagine diretta sul sigillo che P.A. de Capua usava per siglare i suoi documenti dimostra, inoltre, che la banda che caratterizza il suo stemma appare divisa sostanzialmente in tre parti uguali nel senso della sua lunghezza (all’interno del museo diocesano di Otranto è uno stemma, descritto qui successivamente, dello stesso arcivescovo in cui la parte centrale è più ampia della parti laterali; all’interno del cortile del seminario è inoltre un altro stemma, senza nappe e copricapo arcivescovile, rinvenuto durante i restauri del 1911; in quest’ultimo caso le bande hanno la medesima larghezza). Si segnala che l’arma de Capua forse più interessante è quella presente sulla vera del fonte battesimale oggi presso il museo diocesano di Otranto. Tale vessillo compare piegato su due lati contigui del fonte ottagonale e in una soluzione bipartita con altro stemma. Di fatto questa bipartizione potrebbe essere legata all’arcivescovo Pietro Antonio attraverso gli stemmi Arcamone (la madre apparteneva a questa famiglia) – de Capua (F. Ughello, Italia sacra, Sebastiano Coleti: Venetiis: apud Sebastianum Coleti, 1721, Tomo IX, colonna 65). Il fonte ha pianta ottagonale con alta cornice basamentale. La chiusura superiore è sorretta visivamente da una serie di lesene piegate a libro poste sugli angoli. Sopra i capitelli a motivi vegetali e sempre in posizione angolata, come già qui osservato, vi sono gli scudi (dalle estremità laterali e superiori accartocciate) partiti piegati in modo da far cadere la metà dei medesimi (con uno dei due stemmi) su ognuno dei lati dell’ottagono. Ciascuna delle metà degli scudi presenta un’estremità che si accartoccia attorno all’ansa della vicina tabula (larga poco più dell’intercolumnio delle lesene sottostanti) con iscrizione incisa. Quello che sembra un dettaglio compositivo di secondaria importanza tale non è in realtà. Soltanto, infatti, mettendosi frontalmente a ogni lato dell’ottagono, l’osservatore avrebbe il miglior punto di vista sia per leggere l’epigrafe di ogni lato sia per vedere la scena scolpita a bassorilievo, posta al di sotto dell’epigrafe medesima fra le lesene angolari piegate, ma soprattutto per leggere la disposizione araldica di quegli stemmi angolari più comunemente usata ovvero quello de Capua (linea paterna) a sinistra e quello Arcamone (linea materna) a destra di chi lo osserva. Per completezza si segnala che la parte sopra gli stemmi e al di sotto del piano di appoggio del bordo è fortemente consunta e perciò non sono leggibili molti dettagli, fra cui eventuali simboli anche religiosi a corredo come il tipico copricapo arcivescovile con le nappe che sormonta gli stemmi degli alti prelati. Lo stato conservativo non impedisce di escludere anche un’altra ipotesi, qualora fosse confermata addirittura l’inesistenza di quegli elementi di corredo cui si accennava, perché in tale caso gli stemmi partiti sarebbero laici e potrebbero far riferimento ai fratelli di P.A. de Capua (risulta ne abbia avuti due: Vincenzo e Giantommaso). Nel museo diocesano di Otranto è uno stemma lapideo di questo arcivescovo (iscrizione in basso su tre righe di cui l’ultima dedicata al millesimo scritto in cifre arabe «1578», un anno prima della sua morte). L’opera è interessante per due altre ragioni: prima di tutto nella parte sommitale, al centro dell’ellisse entro cui è racchiuso lo stemma propriamente detto, spicca una piccola croce latina posta immediatamente sotto il basso e largo copricapo da cui sfioccano i cordoni che si distribuiscono simmetricamente nascendo dal copricapo, scomparendo sotto lo stemma per riapparire sui lati in alto, simmetrici rispetto alle due diagonali del rettangolo che racchiude il tutto, e finire nelle estremità laterali con le tradizionali nappe; la banda centrale dello stemma non è divisa in tre parti uguali, come visto in altre circostanze, essa appare più larga di quelle laterali che la contengono.
Fig 7
Otranto, museo diocesano, fonte battesimale già in cattedrale, stemma partito: a sinistra, Arcamone, a destra, de Capua.
Torniamo al portale. Assodato che lo stemma esistente non è quello dell’arcivescovo P.A. de Capua e considerando in più gli estremi cronologici sia dell’episcopato di questo prelato (1536-1579) che quelli del pontificato di Gregorio XIII (1572-1585), se ne può dedurre che esso è quello del successore di P.A. de Capua ovvero Pietro de Coderos, arcivescovo di Otranto dal 1579 al 1585. Lo stemma di P. de Coderos non compare né nella citata Cronotassi iconografica etc né è stato possibile rilevarlo al momento nella cattedrale (si ha in corso però un’indagine sistematica nei documenti presenti nell’archivio diocesano di Otranto) e parrebbe quindi al momento, con tutte le cautele del caso, un inedito in quanto alla sua identificazione.
A proposito ancora degli stemmi presenti sul medesimo, portale C. Gelao attribuisce quello collocato a sinistra all’«imperatore» Filippo II (p. 49). Quest’ultimo però «Ereditò dal padre i vasti domini in Europa e nelle Americhe, eccetto il titolo di imperatore e il trono asburgico » (http://www.treccani.it/enciclopedia/filippo-ii-re-di-spagna/). D’altro canto poi bisogna rilevare un dettaglio iconografico di non secondaria importanza che crea delle perplessità: l’assenza dell’aquila bicipite. Gli stemmi dell’imperatore Carlo V, padre di Filippo II, e quelli di Ferdinando I d’Asburgo, fratello di Carlo V, cui dopo la morte di quest’ultimo passò la corona imperiale, presentano proprio l’aquila a due teste. Tracce di una corona, plausibilmente però di tipo solo regio, sono, in effetti, ancora visibili sulla testa dell’aquila dello stemma sovrano presente sul portale.
Il portale (parte marmorea) e le iscrizioni
L’opera che qui si analizza è molto interessante anche da un punto di vista epigrafico. In questo caso si ritiene opportuno approfondire quanto scritto da C. Gelao cominciando con la descrizione di un aspetto dell’opera in particolare. Al centro, immediatamente sopra il vano della porta, è un’inscrizione incisa su un supporto marmoreo articolata in quattro righe di testo (nella trascrizione qui proposta, il passaggio di riga è indicato con “/”; a caratteri minuscoli sono le integrazioni del testo che è invece in maiuscolo): «OPPIDO CAPTO A TURCIS Anno SALUTIS MCCCCLXXX PARS MAXIMA TEMPLI CORRUIT QUAM SERAPHINUS ARCHIEPiscopuS INSIGNIS PIETATE RESTAURAVIT POSTERISQue MARMOREA SUFFRAGANEORum MONUMENTA MAGISTRO NICOLAO FERRANDO SCULPtori DE Sancto PETRO FACIUNda MANDAVIT» ovvero: ”Conquistata la città dai turchi nell’anno del Signore 1480, la maggior parte della cattedrale rovinò, l’arcivescovo Serafino, famoso per la pietà, la restaurò e per i posteri ordinò al mastro scultore Nicola Ferrando di Galatina di fare i monumenti dei suffraganei”. Altri testi incisi sono nella parte marmorea là dove si vedono le rappresentazioni dell’arcivescovo committente e quelle dei suffraganei dell’arcidiocesi otrantina.
Nella lesena (http://www.treccani.it/enciclopedia/lesena/ ) a sinistra, ultimo concio in alto, è l’immagine a mezza figura dell’arcivescovo Serafino che, in abiti dell’ordine francescano (Minori Osservanti) cui apparteneva, predica dal pulpito (da notare che l’assenza di spigoli e il restringersi delle scanalature che ne decorano la parte esterna alle estremità lasciano supporre che esso fosse circolare). In particolare nel capitello, completamente reinventato da N. Ferrando (lo si vedrà meglio in seguito), sopra il copricapo del prelato, nella fascia frontale dell’abaco curva e lievemente inclinata verso il basso (per favorire evidentemente la leggibilità di quanto su di essa scritto) si legge sempre inciso «ACHIEPiscopuS SERAPHINus» con un segno lineare di abbreviazione al di sopra delle «EP» e un apice conclusivo alla fine del nome che abbrevia «US»; le due parole sono separate da un punto collocato a metà dell’altezza del testo. Immediatamente sotto la predetta immagine seguono, dall’alto in basso, le rappresentazioni, pure a mezza figura, dei suffraganei ovvero rispettivamente quello di Ugento, di Gallipoli e infine, l’ultimo in basso, quello dell’abate di San Nicola di Casole. I prelati, evidentemente in una posizione di ascolto rispetto al predicatore, sono raffigurati in abiti vescovili o meglio con mitra sul capo, piviale riccamente decorato e, nelle mani di ognuno, il pastorale in quella destra, un libro sacro chiuso in quella sinistra.
Nella lesena marmorea a destra si ripete lo schema compositivo precedente ma con alcune differenze significative nelle singole raffigurazioni. In alto compare ancora la rappresentazione a mezza figura di Serafino ma, questa volta, benedicente e in abiti vescovili. Nell’abaco, stessa posizione della lesena precedente, si legge un testo inciso: «SERAPHinuS METROPOLITA/Nus» (C. Gelao legge invece «SERAPHinuS METROPOLITA», p. 47) con un segno lineare di abbreviazione posto sopra la lettera «H»; l’ultima «O» inserita dentro la parte panciuta della «P» e la «I» finale, più piccola, in posizione apicale rispetto alla «L»; un punto di separazione fra parole è collocato a mezza altezza delle lettere e, incisa sul corno destro dell’abaco, l’ultima lettera «N» seguita da un segno finale sovrapposto all’asta verticale ultima della medesima «N», collocato quasi in apice, a forma di virgola. Nella trascrizione qui proposta si è usato il simbolo “/” per indicare il passaggio dalla parte frontale al corno dell’abaco sulla cui superficie, come detto, è l’incisione.
Immediatamente sotto il benedicente Serafino seguono dall’alto in basso le tre rappresentazioni degli ultimi tre suffraganei (in totale sei) scolpiti a bassorilievo. In questo caso essi sono tutti vescovi ovvero, dall’alto in basso, quello di Lecce, Castro e Alessano, che a mani giunte evidentemente ricevono la benedizione che, quasi in una istantanea, l’arcivescovo otrantino rappresentato nel capitello in alto sta impartendo. Alla base di ciascuna delle sei immagini di vescovi e abate, inquadrate, sopra e sotto, da modanature architettoniche orizzontali, pure a bassorilievo, dal profilo lievemente curvo o meglio bombato, si leggono incise le lettere componenti la denominazione che li identifica sulla base dei nomi delle diocesi (località) di cui erano titolari. Ciascun aggettivo (per il luogo) è preceduto da altro abbreviato con «RMˀ» (in particolare si segnala che sulla gamba inclinata della «R» è un segno trasversale e dopo la «M» in apice compare un simbolo, un tratto curvo, qui sintetizzato per semplicità con un punto interrogativo). Tale «RMˀ», che C. Gelao legge come «P» (pp. 46- 47), è in realtà la forma abbreviata di un aggettivo usato in questo contesto anche per la dignità vescovile, oltre che per l’abate, ovvero «ReverendissiMus». Nella lesena a sinistra si leggono quindi dall’alto in basso le seguenti iscrizioni sotto ogni singola immagine: «ReverendissiMus UGENTINENSIS»; «ReverendissiMus GALIPOLITANENsis»; «ReverendissiMus ABBAS Sancti NIcoLAI De CASULE». Nella lesena a destra si leggono: «ReverendissiMus LICIENCIS»; «ReverendissiMus CASTRENSIS»; «ReverendissiMus ALEXANensis». Alcune delle lettere qui trascritte sono di fatto poco visibili (la qualità e il livello di leggibilità andrebbero segnalati in una trascrizione) ma per una maggiore semplicità esplicativa del testo generale se ne è riportata la versione integrale e senza commenti.
Datazione delle parti marmoree (secondo C. Gelao)
C. Gelao colloca (pp. 56 e succ.) fra il 1495 ed il 1514 (p. 59 in particolare) gli interventi edilizi di Serafino e in particolare la realizzazione sia del portale settentrionale (tutta la parte marmorea senza distinzioni) che del monumento funebre destinato a questo arcivescovo, avanzando «prudentemente» l’ipotesi (pp. 56 – 57) che prima del 1495 il prelato francescano non abbia dato inizio ai “suoi” lavori alla cattedrale di Otranto.
A sollevare delle perplessità su tali conclusioni è di fatto un’affermazione, scaturita da una fonte storica pubblicata nel 1889 e riportata dalla medesima studiosa (p. 56). In accordo con quanto segnalano altri documenti ampiamente noti e ricordati pure dalla stessa C. Gelao, Serafino fu nominato arcivescovo nel 1481 da Sisto IV (pontificato: 1471 – 1484); il fatto che il prelato, dopo tale data, ebbe problemi talmente gravi con Alfonso II, successore di Ferdinando I re di Napoli, da prevedere la sua carcerazione (p. 56) -nel 1494 è segnalato in prigione a Castel dell’Ovo- non può far escludere la possibilità che proprio prima di questo anno, il 1494, egli abbia dato mandato per l’avvio di lavori di restauro nella cattedrale di Otranto. L’assenza di documenti in merito (p. 57) non significa, d’altro canto, né che essi non siano esistiti (potrebbero essere andati dispersi, distrutti, etc) né che un evento architettonico non sia accaduto. Detto in altri termini: in mancanza di ulteriori dati non si può in sintesi escludere a priori che la realizzazione dei «MONUMENTA», così indicati nell’epigrafe, ovvero la parte marmorea del portale, sia avvenuta prima del 1494. L’ipotesi di C. Gelao non può, quindi, essere condivisibile.
Ancora sulla datazione del portale (parte marmorea)
I nominativi di artista e committente dell’opera sono dichiarati nella lunga epigrafe (qui precedentemente trascritta nella sua interezza) collocata proprio sopra il vano della porta; da essa si ricava anche l’origine dello scultore.
Nell’epigrafe è presente l’espressione «[…] POSTERISQue MARMOREA SUFFRAGANEORum MONUMENTA […]». In sostanza l’arcivescovo Serafino da Squillace fece eseguire da N. Ferrando i monumenti marmorei dei suffraganei. Il termine «MOMUMENTA» è utilizzato al plurale pensando evidentemente alle cinque immagini di vescovi e a quella dell’abate poste sui due fusti di lesena.
La parte realizzata dallo scultore Ferrando è composta da due tipi di marmo: il primo, pario, bianco, con cui sono realizzati a bassorilievo le mezze figure dei vescovi e dell’abate (si tratta di due pezzi unici a tutta altezza); il secondo, quello venato, dalla colorazione grigia. Le parti realizzate in marmo grigio sono significativamente prima di tutto la lunga epigrafe dalla quale si sono tratte tutte le informazioni appena qui segnalate e poi: i due piedistalli sotto le lesene con le immagini dei suffraganei, i due spezzoni finali dell’architrave a fasce, i pezzi componenti le basi su cui poggiano a loro volta i piedistalli appena ricordati.
A questi ultimi si aggiungano due altri tratti che rivestono la faccia frontale dei due piedritti e i due capitelli con la raffigurazione del committente, l’arcivescovo Serafino. Con buona probabilità all’elenco precedente andrebbe aggiunto anche il pezzo angolare in alto a destra (esso riveste il piedritto destro), il cui colore è più prossimo al marmo venato della vicina lastra con la lunga iscrizione incisa che non a quello bianco della lastra verticale sottostante a rivestimento sempre del piedritto destro. Sono da aggiungere, infine, le lastre in marmo bianco che rivestono verso l’esterno gli stipiti; in questi casi, nonostante il materiale (e il colore) sia il medesimo dei fusti con i suffraganei, la continuità di disegno e di esecuzione dell’apparato decorativo a bassorilievo nei pezzi analoghi contigui lascia supporre che anche queste parti di marmo bianco siano riferibili all’intervento di N. Ferrando.
Gli elementi apportati dallo scultore galatinese a seguito dell’incarico conferitogli da Serafino sarebbero quindi tutti quelli in marmo grigio più alcune parti in marmo bianco nell’ambito forse di un più generale reimpiego di materiali di pregio (come quelli marmorei) provenienti anche dai danni subiti dalla cattedrale durante l’invasione turca del 1480.
E’ necessario a tale proposito fare un passo indietro e ricordare quanto affermato nel saggio della studiosa dove si ritengono i bassorilievi dei suffraganei come “rappresentazioni astratte” delle sedi dipendenti da quella di Otranto e non ritratti specifici dei singoli prelati raffigurati. C. Gelao quindi critica (p. 50) le conclusioni di un altro studioso, C. Dell’Aquila (in Cronotassi iconografica etc.), il quale identifica i vescovi ritratti con quelli in carica nel 1514.
La differenza fra le ricostruzioni dei due studiosi è fondamentale: nel primo caso, come detto, si avrebbe una raffigurazione astratta, «meramente simbolica» (p. 50) delle sedi suffraganee di quella di Otranto, nel secondo caso, invece, le “fotografie” a bassorilievo di quei vescovi e abate in carica nel 1514. A ben vedere c’è del buono in entrambe le ricostruzioni. Ha ragione C. Gelao quando critica C. Dell’Aquila rispetto alla datazione che quest’ultimo propone del portale marmoreo, il 1514; potrebbe avere ragione invece C. Dell’Aquila quando avanza l’ipotesi che quelle rappresentate possano corrispondere effettivamente alle immagini dei suffraganei in carica al momento dell’esecuzione di quei ritratti. La principale questione da chiarire è però la datazione ovvero in quale anno quelle immagini furono realizzate (e pertanto quale prelato potrebbero raffigurare eventualmente).
Per chiarire proprio quest’ultimo aspetto è necessario analizzare in modo più approfondito le immagini scolpite dei suffraganei. Ciascuno dei religiosi è rappresentato in due tipi di pose (già prima qui segnalate), davanti ad un riquadro immediatamente alle sue spalle e solo parzialmente visibile che a sua volta è davanti ad un elemento architettonico che potrebbe sembrare un’abside (o una nicchia, anche se non vi è alcun accenno grafico di curvatura). Quest’ultima è inquadrata, nelle rappresentazioni dei suffraganei collocate a sinistra, da semplici specchiature sottili con un anello nella loro parte superiore, attraverso cui passa un elemento decorativo (analizzato qui in seguito) filiforme; nelle raffigurazioni collocate a destra, invece, si osservano lesene, nella stessa posizione delle sottili specchiature appena ricordate, espresse in modo sintetico ma complete di piedistalli, basi, fusti (decorati al loro interno con candelabre) e capitelli; il catino di queste “absidi” è decorato con una conchiglia.
Sulla parete di fondo dell’”abside” è un festone a perline (in tutte le tre immagini a destra) agganciato alle lesene laterali con anelli. Nelle immagini dei suffraganei a sinistra i festoni, realizzati in tre modi diversi tra loro, sono appesi nel medesimo modo: essi passano cioè attraverso anelli agganciati alla sommità delle specchiature inquadranti ognuna una sorta di nicchia per scendere poi verticalmente all’interno di quella medesima partitura architettonica. Nella rappresentazione dell’abate di Casole il festone è composto da perline (simili a quelle che si trovano nelle immagini dei suffraganei a destra), da un cordiglio con nodi in quella del vescovo di Gallipoli e, infine, da motivi vegetali a fascio in sequenza lineare in quella del vescovo di Ugento.
Cordoni, cordigli, perline e spighe (o quasi).
I motivi a perline sono presenti sia nei tre ritratti a destra che in quello dell’abate di santa Maria di Casole. C. Gelao ritiene che queste perlinature siano di fatto dei rosari da riferire all’Ordine dei Predicatori (p. 48).
Un caso particolare è invece quello relativo al vescovo di Gallipoli, dove la figura è accompagnata alle sue spalle da un cordone con nodi simile a quelli presenti: nel rosone; nel sepolcro di Serafino da Squillace; nell’architrave a fasce e ai bordi delle lastre marmoree che rivestono gli stipiti in pietra leccese, tutti, questi ultimi, del medesimo portale. L’autore di tali ritratti marmorei sarebbe (anche per via stilistica) sempre N. Ferrando.
Nel caso del vescovo di Gallipoli, e solo in questo, a differenza degli altri “festoni” nei «MONUMENTA», quel cordone con i nodi non sarebbe solo un semplice elemento decorativo ma potrebbe essere indicativo della natura francescana di quel prelato. Il dubbio andrebbe sciolto. A completare questo quadro può essere opportuno considerare un’altra opera scultorea attribuita al medesimo artista. Nella chiesa francescana di Santa Caterina di Alessandria a Galatina (Lecce), navata destra, è un altare, datato 1498, dedicato a san Benedetto la cui statua a figura intera campeggia nella nicchia centrale.
Diversi sono gli aspetti di tale altare da segnalare perché utili a quest’analisi.
Primo fra tutti la data di realizzazione, il 1498, inciso nell’architrave; poi l’apparato decorativo che è attorno alla nicchia e sull’abito del Santo; quindi il volto di quest’ultimo e infine la teoria di piccoli angeli a figura intera presenti nel fregio. I volti di questi ultimi ritornano simili a quelli dei due angeli che sul portale otrantino sorreggono la Veronica; questa vicinanza stilistica, attraverso anche il confronto con altri dati figurativi, rende accettabile l’attribuzione dell’altare allo stesso autore dell’epigrafe autografa marmorea del portale otrantino con i suffraganei.
Il millesimo 1498, inciso sull’altare a Galatina, se messo in relazione con il volto del Santo che è nella sottostante nicchia, in particolare, rivelerebbe come già a questa data lo scultore fosse in grado di esprimere quella caratterizzazione che si riscontra anche a Otranto, nella cattedrale, nel volto della statua raffigurante Serafino da Squillace inginocchiato, collocata nel suo monumento funebre.
Quello che poi si osserva è una sostanziale differenza fra i ritratti dei due volti di Serafino scolpiti sul portale laterale della cattedrale di Otranto e quello del monumento funebre appena ricordato.
Prima ancora che una necessità compendiaria o un’incapacità a eseguire una riproduzione realistica dell’arcivescovo, viene da pensare che quei due ritratti di fatto vogliano rappresentare il prelato quando era più giovane.
Altro aspetto da segnalare è il ricco apparato decorativo dell’altare in Santa Caterina che potrebbe risolvere una questione, così come sollevata da C. Gelao, di non secondaria importanza per la datazione della parte marmorea del portale otrantino.
La studiosa, infatti, nel descrivere le mezze figure dei suffraganei, e in particolare il vescovo di Ugento, segnala sull’abito una fascia decorata da spighe, allusione, afferma la studiosa, dell’appartenenza all’ordine benedettino di quel vescovo (p. 46).
Nella cronotassi dei vescovi di quella diocesi però non si segnala nel Quattrocento alcun vescovo appartenente all’ordine religioso di san Benedetto e non si comprende quindi perché dovrebbe esserci un simbolo benedettino addosso di un vescovo di quella diocesi; in secondo luogo quelle «spighe» tali non sembrano essere in effetti.
Nell’altare di san Benedetto non solo sono presenti spighe vere e proprie (utili quindi per un più plausibile confronto con i motivi presenti sulla mezza figura del portale) ma anche un altro tipo di decorazione, costituito da un fascio di foglie tenute assieme da un nastro e montate in sequenza lineare a formare un festone, appeso, inserito verticalmente, nella lesena.
I motivi presenti nel ritratto (cordone, piviale, mitra) otrantino appaiono più simili al secondo tipo di decorazione incontrato nella statua di san Benedetto che non a spighe (nel ritratto otrantino il motivo è composto da tre coppie di foglie dal profilo superiore frastagliato, simmetricamente disposte l’una a destra l’alta a sinistra di uno stelo centrale, visibile solo alle estremità inferiore e superiore, con una infiorescenza sommitale); tale elemento, oltre che nell’immagine del vescovo di Ugento, è presente anche sull’abito dell’abate di Casole, alle cui spalle si rileva inoltre il motivo a perline cosi come nei ritratti dei suffraganei a destra. Se è vero, secondo quanto sostenuto da C. Gelao, che le «spighe» siano da associare all’ordine benedettino e i grani del rosario all’ordine domenicano, se ne deve concludere che tali ipotesi non possono essere vere contemporaneamente oppure una delle due (spighe – rosario) deve essere falsa o addirittura entrambe false. Da aggiungere, infine, che il motivo a perline, ed è il caso della statua di Serafino inginocchiato in preghiera che è nel suo monumento sepolcrale in cattedrale a Otranto, si può presentare anche nella sua variante traforata, con una interessante accentuazione dei giochi luministici delle superfici marmoree.
Il fatto che tali elementi a perline e a «spighe» siano presenti anche nel ritratto dell’abate di Santa Maria di Casole lascia pertanto propendere per l’idea che quei motivi siano in realtà solo elementi decorativi. Essi quindi non sono grani di rosario nel senso di un riferimento ai Domenicani (a rigore cioè potrebbero essere anche grani ma non con il riferimento a quell’ordine in particolare) e così pure le spighe, che non sono tali, fanno venir meno il riferimento all’ordine benedettino.
C’è un elemento di riflessione in più. La medesima studiosa nella stessa analisi sostiene inoltre che quelli rappresentati siano figure astratte e cioè non riferibili a prelati ben precisi (p. 50), lo si è rilevato. Questo suo ragionamento entrerebbe in contraddizione nel momento in cui la medesima afferma che nella rappresentazione dei suffraganei lo scultore inserirebbe degli espliciti riferimenti a ordini religiosi (avviando con ciò un processo di identificazione indiretto). Fra quelle sedi vescovili e quegli ordini presunti da C. Gelao non è stato mai dimostrato un rapporto nel periodo cui si riferirebbe l’intervento di Ferrando.
In realtà i suffraganei potevano appartenere a qualunque ordine religioso e allo stato attuale delle ricerche non sono emersi elementi in contrario. L’indagine nella cronotassi di quelle sedi, inoltre, non segnala la presenza in contemporanea di vescovi provenienti dall’ordine domenicano, benedettino e francescano fra fine Quattrocento e inizi Cinquecento.
D’altro canto un motivo simile alla detta perlinatura, ad esempio, si riscontra anche nell’altare di san Benedetto. Viene da concludere quindi, sulla base di tutto quanto detto finora, ed una volta di più, che i cordoni a perline o a fasci di foglie potrebbero avere un valore solo decorativo.
Un significato a parte, una sorta di eccezione legata forse al rapporto privilegiato che lo scultore potrebbe avere avuto con l’ordine del Santo di Assisi, invece sembra avere il cordone di tipo francescano (con nodi) che è alle spalle del vescovo di Gallipoli. Potrebbe essere così?
Il cordone, senza nodo, come elemento decorativo è un motivo non infrequente nella scultura quattrocentesca (giusto per rimanere nell’ambito cronologico delle opere di cui ci occupiamo) e lo stesso N. Ferrando d’altro canto lo usa ampiamente proprio nell’altare di san Benedetto qui più volte ricordato. Il tema decorativo compare poi in altre circostanze ma con una sostanziale differenza: la presenza ripetuta dei nodi così come presenti nell’abito francescano. Lo scultore N. Ferrando, confrontando i casi diversi riscontrati, distingue le circostanze dimostrando di riconoscere, quando lo vuole, valore simbolico al cordone di quell’ordine e pure che quando ha bisogno di un semplice cordone per fini solo decorativi lo usa riproducendolo e distinguendolo da quello francescano. Se quindi in uno dei «MONUMENTA» appare quel cordone in particolare sembra plausibile affermare che egli lo faccia con un intento ben preciso. Potrebbe voler dichiarare l’origine francescana del vescovo di Gallipoli raffigurato nel portale?
A questo punto sembra opportuno ricordare, come anche C. Gelao segnala, l’esistenza del “cordiglio francescano” (in cui cioè una parte è annodata): nella lunga epigrafe che contraddistingue il portale; nel rosone (bordo esterno visibile però solo in controfacciata) che è sul prospetto principale della cattedrale otrantina; nella tomba dello stesso arcivescovo Serafino. Aggiungiamo che, sempre nel rosone, un altro cordiglio, più corto del precedente, è nella parte più interna del piccolo occhio centrale (visibile solo dall’esterno, esso è delimitato da una serie di cornici modanate rivestite da piccole foglie). Su quest’ultimo poggia la teoria di sedici colonne lisce con basi, fusti, capitelli (rivestiti di foglie piegate in alto a formare volute) e abachi che sorreggono un ricco motivo decorativo (ad archi ogivali composti di cornici principali e secondarie che si flettono sinuosamente generando un’alta fascia traforata di gusto simile a quello presente in modelli veneziani come il palazzo ducale) su cui è un’articolata trabeazione.
Quest’ultima è, infatti, composta di: un architrave a tre fasce, di cui le centrali separate le une dalle altre da un tondino liscio, conclusa superiormente da una gola rovescia liscia sormontata da un listello pure liscio; segue quindi un fregio (simile, a meno della caratterizzazione del capolino, a quanto è all’interno delle piccole lesene che decorano il fonte battesimale cinquecentesco, oggi nel museo diocesano di Otranto e un tempo nella cattedrale di questa città) il cui spazio interno, inquadrato da modanature (listello, gola rovescia), è scandito da un motivo decorativo costituito da elementi circolari (due simmetrici rispetto a ogni interasse radiale) modanati lisci a bassorilievo al cui centro è un fiore (con capolino, ora tripartito ora quadripartito da foglie ancora chiuse al centro, da cui emerge un primo ordine di otto petali a punta con nervatura centrale e un secondo retrostante con altrettanti petali parzialmente visibili); una cornice liscia modanata (dall’esterno verso l’interno: listello, fascia gola diritta, listello, ampia fascia, ovolo, listello, gola rovescia).
Non abbiamo elementi stilistici certi per attribuire il rosone sempre a N. Ferrando, il che sarebbe significativo da un punto di vista storico-critico rispetto all’uso del cordiglio francescano come elemento decorativo.
A questo proposito si segnala che nella parte del rosone visibile dall’interno dell’edificio la decorazione è costituita dal già ricordato cordiglio con nodi, da una serie di fiori, scolpiti a bassorilievo, simili per disegno e realizzazione a quelli analoghi posti nella parte visibile dall’esterno del medesimo rosone, e soprattutto un angelo posto al centro, in alto, della ghiera. Purtroppo l’intelaiatura metallica a sostegno della chiusura a vetri del rosone ha compromesso il volto di questa figura che così non è più leggibile. Se questo elemento decorativo fosse ancora esistito nella sua interezza avrebbe potuto aiutare molto ad attribuire con più certezza il rosone a N. Ferrando. Solo le ali sono ancora integre e quanto di esse ancora visibile appare differente (a meno di un piccolo dettaglio nella parte superiore dell’ala destra) dal modo in cui lo scultore galatinese realizzava usualmente queste parti.
Quel cordiglio, indipendentemente dall’esecutore, diventa quindi in particolare il simbolo di Serafino per eccellenza e più in generale della sua appartenenza all’ordine francescano (ricordata peraltro a chiare lettere anche nell’epigrafe incisa sulla cassa del suo monumento funebre nella stessa cattedrale).
Se vero questo principio per i casi precedenti, ci si dovrebbe porre una domanda: perché il cordiglio presente nel bassorilievo del vescovo di Gallipoli non può essere a sua volta indicativo dell’appartenenza all’ordine francescano di quest’ultimo vescovo? Un’indagine nella cronotassi dei vescovi gallipolini (Cronotassi iconografica etc. p. 183; https://www.diocesinardogallipoli.org/diocesi-nardo-gallipoli/cronotassi-dei-vescovi-della-diocesi-di-gallipoli/), rivela che appartenenti all’ordine religioso dei Frati Minori, vi furono: Guglielmo da Ponte vescovo di Gallipoli fra il 1412 ed il 1420; Donato da Brindisi, (1424 – 1443); Antonio de Neotero, (1443 – 1445); Antonio de Joannetto (1451 – ?; il successore, Ludovico Spinelli è segnalato a partire dal 1458). Per trovare un successivo vescovo dello stesso ordine religioso nella medesima diocesi è necessario spingersi avanti sino al 1654. Andrebbe ricordato per completezza che l’ultimo di questa serie viene segnalato dalle diverse cronotassi oggi note in modo dubitativo, perché probabilmente relativo alla diocesi di Callipoli in Tracia. Non solo.
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Una ricerca è stata condotta per il periodo 1377-1515 nell’opera che L. Wadding ha dedicato all’ordine francescano (Annales…) e non sono emersi altri vescovi francescani oltre a quelli già qui indicati in precedenza. Possiamo pertanto dedurre le seguenti ipotesi: N. Ferrando, nonostante l’attenzione prestata al significato simbolico del cordiglio francescano nel caso di Serafino, ha utilizzato nella rappresentazione del vescovo di Gallipoli quel tipo di cordone solo con finalità decorative; le evidenze storiche oggi disponibili potrebbero essere incomplete; i «MONUMENTA» potrebbero essere precedenti il 1480 (anni ‘40 / ‘50 del Quattrocento) e reimpiegati da N. Ferrando, anche se a rigore è necessario dire che questa interpretazione non trova riscontro in senso stretto nel testo dell’epigrafe del portale medesimo.
Le scarne informazioni biografiche relative allo scultore N. Ferrando (notizie 1498 – 1514 circa) non aiutano d’altro canto molto in questo senso; ricordare infatti che alla morte di Serafino, avvenuta nel 1514, egli potrebbe avere realizzato il monumento funebre di questo arcivescovo otrantino non è in contrasto con un arco cronologico della sua attività lavorativa tale che sia proponibile l’ipotesi per la quale il vescovo gallipolino raffigurato nel portale otrantino sia uno di quelli in carica negli anni quaranta/cinquanta del Quattrocento.
Lo stato conservativo dell’architrave marmoreo e, si potrebbero aggiungere, i fusti di lesena di marmo bianco con i suffraganei, sembra abbiano vissuto la devastazione e soprattutto i postumi dell’invasione turca del 1480.
Quest’analisi nelle sue conclusioni ultime, se ulteriormente confermate, potrebbe restituirci così anche l’opera più datata che si conosca oggi dello scultore N. Ferrando.
A proposito ancora dei segni del “tempo e delle umane vicende” C. Gelao riconosce come causati da archibugiate (p. 44) un paio di fori circolari presenti sulle immagini di due dei sei suffraganei. Ipotesi non condivisibile quest’ultima, visto che si tratta di fori caratterizzati da una circolarità (centimetri otto circa di diametro) talmente spiccata da essere incompatibile con gli effetti distruttivi prodotti da proiettili e anche di quel tipo di arma.
La trama di questa narrazione sembra infittirsi e lo abbiamo voluto nel tentativo di portare alle estreme conseguenze tutte le ipotesi possibili.
Sulla base di quanto rilevato finora riteniamo di affermare che plausibilmente Ferrando non fu in errore nel rappresentare quel cordiglio francescano, con la precisazione che quel dettaglio, però, non si riferisca al prelato rappresentato. Le fonti fino ad oggi rinvenute non segnalano, infatti, vescovi francescani nella diocesi di Gallipoli se non molti anni prima del fatidico 1480. D’altro canto l’epigrafe si esprime in modo chiaro proprio sui ritratti dei suffraganei. Questa conclusione ci consente di soffermarci ancora di più sull’aspetto artistico. Da rilevare, quindi, come l’utilizzazione di due tipi di marmi e con essi due tipi di colori approda ad una soluzione compositiva bicroma, in cui la rappresentazione del cordiglio, con scopi decorativi, si riferisce allo spazio in cui il prelato è “fotografato”; la presenza in più punti, come qui già rilevato, nella cattedrale di Otranto di quel simbolo francescano lascia supporre che quello rappresentato alle spalle del prelato gallipolino sia proprio una parte dell’edificio restaurato dall’osservante “fra’ Serafino”.
A ciò si aggiunga, infine, un’ulteriore elemento che sembra andare nella medesima e appena rilevata direzione di un utile (per la ricerca) e forse ingenuo realismo. I volti dei suffraganei non appaiono standardizzati, essi si distinguono gli uni dagli altri per la capigliatura, anche se nascosta dalle rispettive mitre, così come da elementi più legati alla fisicità dei singoli (alcuni hanno ad esempio il doppio mento, altri no). Utile è confrontare questi volti con quelli davvero generici, quasi astratti, degli angeli presenti sul medesimo portale oppure con quelli scolpiti su un pannello marmoreo custodito nel museo diocesano di Otranto, oppure ancora, e meglio forse, con il volto dello stesso Serafino presente nel suo monumento funerario. In sintesi sembra si possa dire che N. Ferrando era in grado di dare una caratterizzazione specifica, oltre che cronologica, alle figure umane che ritraeva. Il Serafino arcivescovo raffigurato nei due bassorilievi del portale appare più giovane di quello presente nel suo più volte ricordato monumento funebre; dietro questa differenza fisiognomica si potrebbe sostanziare una differenza cronologica in merito all’esecuzione dei tre ritratti (i due volti sulle paraste del portale e quello del monumento sepolcrale) ben più ampia di quella ipotizzata da C. Gelao (1494 – 1514).
Le tabulae e il “restauro” del 1582
La componente epigrafica cui in parte si è già accennato si dimostra utile anche per un altro aspetto. Ai lati esterni della parte marmorea del portale vi sono due altre paraste con loro piedistalli, basi e capitelli in pietra leccese realizzate plausibilmente sempre nel 1582. Sui capitelli di ognuna di tali paraste è presente un cartiglio scolpito il quale nella sua parte centrale superiore si arrotola su se stesso; nel suo margine inferiore, invece, segue in piano un profilo a due S speculari rispetto all’asse mediano verticale; la forma ricorderebbe quella di un libro aperto. Il testo esistente un tempo su queste «tabulae» (spiegheremo a breve il perché di questo termine latino), di cui sono visibili alcuni caratteri, oggi non è più leggibile, come osserva anche C. Gelao che lascia quindi la questione irrisolta (p. 49).
L’analisi storica, e due visite pastorali in particolare, consentono fortunatamente di colmare questa importante lacuna. In quella del 1837 si riporta addirittura (fig.8) uno schema delle due «tabulae», così sono definite, all’interno del quale Mons. Vincenzo Andrea Grande, all’epoca arcivescovo titolare, riporta il testo, oggi non più leggibile, ovvero i nomi dei suoi predecessori otrantini a partire dal 1163 e fino al 1579, e, all’estremità destra di ogni tabula, anche gli anni di inizio dei rispettivi episcopati. Si segnala significativamente che l’ultimo della lista nella tabula a destra è Pietro de Coderos; ciò conferma il committente (segnalato dallo stemma episcopale a destra) e la data rilevata. L’elenco di nomi e anni d’inizio degli episcopati è inoltre riportato in un’altra visita pastorale, datata 1606, quella di Mons. Lucio De Mora (episcopato: 1606 – 1623). Quest’ultimo inoltre segnala non solo i nominativi dei vescovi (a meno di una sola differenza rispetto all’elenco del 1837) ma rileva anche l’esistenza dei volti dei suffraganei in marmo proprio sulla porta settentrionale.
Fig. 8: Otranto, cattedrale, porta settentrionale; da sinistra verso destra: tabula sinistra; visita pastorale del 1837, riproduzione del contenuto delle due tabulae; tabula destra.
Questa notizia di fatto smentisce quindi la ricostruzione di C. Gelao (p. 55) secondo la quale le parti marmoree con i volti dei suffraganei siano state spostate in occasione della costruzione dell’attuale portale maggiore per opera dell’arcivescovo G.A. de Santander nel 1674.
Nella tabula a sinistra, secondo quanto è nella relazione del 1837 (c. 4), si segnala quanto segue: «Archiepiscopi Hydruntini / Ionathas 1163 / Gulielmus 1189 / Tancredus 1209 / Philippus 1257 / Iacobus 1260 / Mattheus 1260 / Petrus Aurelio Augustinianus 1382 / Argonus 1418». Il penultimo di questa prima lista è inserito nell’interlinea con la stessa calligrafia. Nella tabula a destra il medesimo arcivescovo, Vincenzo Andrea Grande, legge: «Nicolaus 1429 / Stephanus 1453 / Seraphinus 1481 / Fabritius de Capua 1516 / Pietro Antonio de Capua 1528 / Petrus de Coderos 1579».
Nella visita del 1606 (c. 32v) si legge (riga 829) un testo diviso in due colonne. Prima colonna:
«In tabula sinistra ingressus adest inscriptio hoc modo videlicet / Archiepiscopi Hydruntini / Ionathas 1(.)63 / Gulielmus 1(. .)9 / Tancredus (. . .)9 / Philyppus 12(. 🙂 / Iacobus 126(.) / Matheus 1(.)09 / Argonus (. . .)8 ».
Seconda colonna:
«In tabula (dextra) ingressus hocmodo videlicet / Nicolaus 1429 / (Stephanus) 1453 / (Serafinus) 1481 / (Fabri)tius de Capua 1516 / (Petrus Antonius) de Capua 1528 / Petrus de Coderos 1579».
Il testo della visita pastorale del 1606, per le parti che qui interessano, è purtroppo non chiaramente leggibile nella sua interezza. Come già detto esso è però estremamente importante perché dimostra che le immagini dei suffraganei scolpite in marmo decoravano già il portale settentrionale (si veda in particolare quanto è alla c. 32, righe 9 – 20 di 27). La medesima relazione informa poi su un altro dettaglio (c. 32, righe 25 – 27 di 27): «Supra huiusmodi lapidem transversalem ianuae adest quoddam triangulum vacuum / in medio, et circumcirca lapidibus vermiculatis constructum in quod depicta est / imago Beatae Marie Virginis ex texellis sive musayco». In sostanza nello spazio trapezoidale che ancora oggi si vede sulla porta era una rappresentazione della Madonna realizzata a mosaico.
Le fasi costruttive del portale
Prima di approfondire l’argomento anticipato dal titolo è opportuno soffermarsi su una serie di aspetti emersi in fase di rilievo che indirizzano verso una maggiore comprensione della struttura compositiva del portale stesso così come lo vediamo oggi.
Nella successione delle cinque immagini a seguire si sono messi in evidenza alcuni aspetti relativi alle caratteristiche fisiche e geometriche del portale. Nella prima immagine (fig. 9) sono stati evidenziati in blu i due tratti di trabeazione di marmo grigio nella loro posizione attuale; nella successiva (fig. 10) i medesimi spostati in quella che doveva essere la loro posizione originale prima della costruzione del portale così come si vede oggi. Nell’immagine a seguire (fig. 11) si sono evidenziati in blu gli elementi esistenti, in rosso invece, partendo proprio dalle preesistenze, si è ricostruita l’immagine di quello che doveva essere il portale precedente l’attuale. Nella terza immagine di questa serie particolare (fig. 12) si mostrano gli schemi geometrici che emergono dalle parti principali: in blu a sinistra il tratto di lesena con la rappresentazione di Serafino; al centro, sempre in blu, lo schema geometrico relativo al vano della porta; e infine, a destra, gli schemi geometrici delle immagini di tre dei sei prelati suffraganei. Tutti gli schemi -in questo come negli altri casi compatibilmente con fratture delle parti costituenti, rimontaggi, approssimazioni da rilievo, e così via – si è rilevato essere soggetti alla regola del diametro e mezzo. L’altezza della porta è pari a un diametro (larghezza della porta) più la metà del medesimo; l’altezza della figura di Serafino (lesena marmorea a sinistra), misurata dalla linea inferiore dell’abaco alla linea di base su cui poggia la mezza figura vescovile, è pari a circa una volta e mezza la larghezza del pezzo marmoreo in cui è scolpita; per le figure dei suffraganei della lesena marmorea a destra si è partiti dal semicerchio relativo alla decorazione a conchiglia posta alle spalle del religioso. Nell’ultima immagine (fig. 13) si sono riportate, infine, tutte le principali geometrie sottese nella composizione. E’ in corso un ulteriore approfondimento di questi aspetti schematici.
Fig. 9: Otranto, cattedrale, porta settentrionale, in blu evidenziati i tratti marmorei dell’architrave a fasce nella posizione attuale.
Fig. 10: Otranto, cattedrale, porta settentrionale, in blu evidenziati i tratti marmorei dell’architrave a fasce nella probabile posizione originaria prima dell’ampliamento del 1582.
Fig. 11: Otranto, cattedrale, porta settentrionale, in blu evidenziati segni di muratura e tessitura esistente; in rosso e blu la ricostruzione del portale precedente quello del 1582.
Fig. 12: Otranto, cattedrale, porta settentrionale, gli schemi geometrico/proporzionali dei principali elementi costitutivi.
Fig. 13: Otranto, cattedrale, porta settentrionale, geometrie.
Chiarito per via documentaria che il portale marmoreo decorava la porta settentrionale della cattedrale già nel 1606, è da capire se, quando nel 1582 l’arcivescovo Pedro de Coderos (e chi per lui) interviene sullo stesso portale, quella parte marmora era già in situ.
In sostanza al portale marmoreo, nel 1582, è stata semplicemente aggiunta una parte in pietra leccese oppure, sempre nel 1582, si è montato il portale in un nuovo unicum progettuale, un restauro in sostanza che comprendesse parti nuove in pietra leccese e altre più antiche in marmo?
Il tema diventa ancora più interessante perché se ciò fosse dimostrato, quello del 1582 sarebbe un vero e proprio caso di restauro-riuso tanto da ecclissare da un punto di vista storico-critico qualunque considerazione sul restauro del 2005.
Per completezza e chiarezza, data la significatività della questione sollevata, è necessario riportare le parole esatte di C. Gelao la quale afferma (p. 50): «Si obietterà che il portale fatto scolpire da Serafino da Squillace e completato presumibilmente prima della sua morte poté ben essere ampliato successivamente con la messa in opera di piedritti e di un coronamento in pietra che funge da frontone, che gli conferiscono una maggiore maestosità. Ma questo è tassativamente da escludersi perché, a un’osservazione ravvicinata, la parte marmorea, più antica di svariati decenni risulta “sovrapposta” a quella tardo-cinquecentesca, che quindi è stata chiaramente adeguata e manomessa, come mostrano vari indizi visibili nelle foto del 2005, per accogliere tale sovrapposizione».
Indipendentemente da come si intenda quel «”sovrapposta”» (il virgolettato è nel testo originale), andrebbe precisato subito che non siamo in presenza, per le parti marmoree, di piedritti (http://www.treccani.it/enciclopedia/piedritto/) ovvero elementi architettonici con funzione strutturale ma di un rivestimento marmoreo, appunto, applicato superficialmente ai piedritti in pietra leccese; per gli elementi contenenti i suffraganei e così pure quelli collocati alle estremità destra e sinistra del portale si è preferito utilizzare il termine di lesena (http://www.treccani.it/enciclopedia/lesena/) in virtù della loro funzione decorativa.
Alle estremità destra e sinistra del vano della porta si rileva inoltre, una per parte, una lesena (fusto, pezzo unico) appoggiata su un piedistallo (pezzo unico) che a sua volta grava su un basso blocco basamentale (pezzo unico); sul fusto della lesena (all’interno è una decorazione a racemi con terminazioni vegetali e teste canine; sul perimetro un listello liscio tutto in giro a delimitare a sua volta una cornice, verso l’interno, costituita da motivi vegetali d’invenzione) giace il capitello con la tabula qui già precedentemente descritta.
Il fusto della lesena poggia su quella che sembra la parte laterale di un capitello ionico: in sostanza si vedono due rocchetti stretti al centro da un balteo, il tutto rivestito da due lunghe foglie che dal centro con il balteo vanno sinuosamente verso le estremità.
L’aspetto interessante è che questo tipo di decorazione di fatto ripete, interpretando dal punto di vista progettuale secondo il gusto e le forme tardo-cinquecentesche (cosa non infrequente in questo contesto culturale e temporale), lo schema compositivo generale delle paraste adiacenti le prime, quelle marmoree, così ripetendone con buona approssimazione dimensioni e forme.
Questo dato è rilevante. Si ricordi ancora per necessità esplicativa, infatti, che nel suo saggio C. Gelao ha ipotizzato (p. 55) che la parte marmorea possa essere stata il portale della facciata principale della cattedrale otrantina e che (p. 51), fra il 1572 ed il 1579 (datazione che attraverso questa analisi/recensione si è dimostrata non corretta), sulla facciata laterale (settentrionale) viene realizzato il portale i cui elementi sono, sempre secondo la ricostruzione di C. Gelao, le parti in pietra leccese che si stanno adesso analizzando.
Detto questo e constatata la coincidenza dimensionale e formale fra ordine architettonico in pietra leccese e quello in marmo, sarebbe questione tutta da spiegare il perché un portale su una facciata laterale dovrebbe riprendere le medesime dimensioni (i piedistalli ad esempio) e criteri compositivi degli elementi montati su un altro portale posto in un’altra facciata, quella principale. Dal punto di vista della logica compositiva generale non vi è nessuna ragione per farlo in effetti.
Una volta di più l’ipotesi proposta da C. Gelao risulterebbe quindi non accettabile.
Si aggiunge un altro dettaglio. Il portale costruito nel 1582 opera in continuità compositiva con quello marmoreo non solo dal punto di vista dimensionale e formale di alcune sue parti ma anche narrativo, se si vuole utilizzare questo termine.
L’elenco degli arcivescovi inciso sulle due «tabulae» in pietra leccese è a completamento con la “dichiarazione” scultorea delle sedi suffraganee.
Torniamo invece alla descrizione del portale. Il rilievo architettonico mostra che le due lesene laterali in pietra leccese sono di fatto giustapposte a quelle marmoree; la «“sovrapposizione”» (per usare il termine di C. Gelao, p. 50) degli elementi orizzontali sommitali (la cornice ad esempio) e del frontone trapezoidale alla sottostante parte marmorea è un’operazione strutturalmente possibile e non esclude in sostanza proprio l’ipotesi che la stessa C. Gelao ha scartato ovvero quella di un “ampliamento” del portale marmoreo. Da precisare meglio poi il significato di questo ingrandimento perché il vano della porta mantenne la stessa ampiezza; esso nel 1582 non fu allargato rispetto a quello della composizione marmorea di N. Ferrando; quest’ampliamento interessò, infatti, solo l’architrave e fu tanto quanto strettamente necessario a inserire le lesene lapidee alle due estremità.
Un’ipotesi e tanti dettagli
Detto questo l’analisi del portale non può dirsi affatto conclusa perché la constatata giustapposizione cui si accennava è possibile anche nel momento in cui si ricostruisce il portale montando contemporaneamente tutti i pezzi (marmorei e non).
Identificato con A l’insieme delle parti in pietra leccese e con B quello composto dagli elementi marmorei, abbiamo di fatto tre casi:
• A (parte in pietra leccese) è stata montata dopo B (parte marmorea);
• A e B sono stati montati contemporaneamente;
• B è stato montato dopo A che è l’ipotesi avanzata da C. Gelao (p. 51).
La casistica enunciata va riconsiderata rapportandola anche, però, sia alla data che abbiamo rilevato sul portale, il 1582, che a due aspetti fondamentali strettamente connessi: l’assemblaggio (smontaggio e rimontaggio) della parte marmorea che ha generato delle anomalie e , in termini più generali, la localizzazione dei singoli pezzi in situ o meno (il portale marmoreo era già montato). Avremo pertanto: prima ipotesi, nel 1582 le componenti marmoree sono in situ ovvero nell’attuale porta settentrionale quando si aggiungono quelle in pietra leccese (semplicemente A si affianca a B, le anomalie nel montaggio della parte marmorea oggi rilevabili sarebbero precedenti il 1582, le parti lapidee si possono aggiungere senza smontare quelle marmoree eccetto due tratti brevi dell’architrave a fasce); seconda ipotesi (contemporaneità del montaggio), nel 1582 la parte marmorea è trasferita in situ oppure lo è già e in questo caso è smontata e rimontata (le anomalie sono quindi o precedenti il 1582 oppure sono create in questa circostanza); infine, ultima ipotesi, il portale marmoreo è trasferito là dov’è oggi in un momento successivo al 1582 (1585) e precedente o coincidente con l’anno della visita pastorale del 1606 (le anomalie nascono in questo momento).
A tale proposito è quindi molto utile riflettere su un dettaglio, quello cioè della qualità del montaggio delle singole parti, e quindi anche sull’attenzione che N. Ferrando pone nell’esecuzione dei dettagli.
Ai lati dei capitelli delle lesene con i suffraganei vi sono alte e grandi foglie la cui nervatura centrale fa da angolo mentre altre più piccole, componenti la principale e più grande, da quest’ultima si dipartono piegandosi e aprendosi sui lati e sui fronti dei capitelli; altre foglie ancora, invece, salgono e si piegano su se stesse dando vita alle volute.
Il riferimento a questo particolare esecutivo, che di fatto occupa una sottile fascia larga solo pochi centimetri posta sui lati dell’ultima lastra di marmo in alto, non appaia secondario perché è indicativo del modo di lavorare dell’artista.
A quest’attenzione al dettaglio, rilevata in quello e altri punti dell’opera, corrisponde invece altrove nello stesso portale – come ad esempio nel dado del piedistallo marmoreo a sinistra – quella che sembra almeno una disattenzione in fase di messa in opera: nel margine a sinistra del dado (cosa simile accade anche nell’omologo piedistallo a destra) si osserva, infatti, una fascia verticale da rifinire destinata, plausibilmente, a non essere lasciata a vista.
Si aggiunga poi un altro dettaglio ancora: le parti marmoree sporgono dalla parete della cattedrale di una distanza pari a circa centimetri 3.5 (misurata per semplicità in corrispondenza del dado della lesena in pietra leccese a sinistra, sul fusto della medesima si sono rilevati circa cm. 3.2). Questo spazio corrisponde approssimativamente allo strato di malta usato per far aderire alla parete retrostante le lastre marmoree con i volti dei suffraganei.
Soffermiamoci sulla terza ipotesi: la parte di marmo è aggiunta dopo quella di pietra leccese.
Lo spostamento in situ della parte marmorea non può essere avvenuto, come sostenuto da C. Gelao, a seguito della costruzione del portale maggiore della cattedrale nel 1674 (data incisa nell’epigrafe presente nel detto ingresso) e ciò per ragioni documentarie, come si è già avuto modo di dimostrare proprio in quest’analisi. In un ragionamento per assurdo lo spostamento potrebbe essere avvenuto però fra il 1582, anzi 1585 (ultimo anno di episcopato di P. de Coderos, per via dello stemma), e il 1606 -quest’ultimo è il primo anno di episcopato di Mons. Lucio De Mora, autore della visita pastorale in quest’anno compiuta; aggiungiamo che fra il 1585 (1587 per via dei due anni di sede vacante dopo P. de Coderos) e il 1606 si ebbe un solo arcivescovo Marcello Acquaviva- a seguito di altri lavori edili, oltre quelli del 1582 (1585) evidentemente, che non avrebbero però, allo stato attuale delle ricerche, lasciato neanche una traccia dell’autorità religiosa che questi nuovi ipotetici interventi avrebbe fatto eseguire. Se dovessimo, però, soffermarci proprio sulla componente araldica e l’evidenza della data incisa, potremmo supporre che gli unici lavori siano stati quelli relativi al 1582 e conclusi al più proprio nel 1585. A ciò si aggiungano le considerazioni, già qui esposte, relative alla vicinanza formale e dimensionale fra le parti in pietra leccese e quelle marmoree, che spingono verso l’ipotesi di una forma d’integrazione e “contemporaneità progettuale” dei diversi elementi del portale; ciò farebbe venir meno proprio la terza ipotesi che qui si è avanzata.
A quanto già osservato, si potrebbe aggiungere una considerazione pratica con valore incidentale: supporre che la parte in pietra leccese esistesse prima di quella marmorea sottintenderebbe che il portale debba, almeno, avere avuto una sua completezza compositiva ovvero un ordine architettonico completo il quale, al fine di ospitare le parti marmoree, avrebbe dovuto essere inevitabilmente manomesso in un arco temporale, come quello qui evidenziato da rilievo e documento, 1585 – 1606, e, se dovessimo attenerci anche alle evidenze araldiche, addirittura quello del 1582-1585. A ben osservare poi le singole componenti del portale, si constata che, pur essendoci gli elementi di due ordini architettonici (quello in pietra leccese e quello marmoreo), nessuno di essi da solo risulta completo; i due si integrano, anzi, il più recente, quello del 1582-85, completa il più antico in marmo ovvero ciò che è giunto dell’opera compiuta da N. Ferrando.
L’osservazione degli elementi marmorei della porta, anche attraverso il rilievo metrico, così come oggi si vedono, induce quindi a due considerazioni:
a) le modalità di assemblaggio delle singole parti farebbero escludere la possibilità che quelle di marmo, così come oggi montate, siano direttamente riconducibili all’intervento di Ferrando.
b) il livello di definizione o meglio di finitura (non levigatura delle parti laterali delle paraste con i suffraganei ad esempio) sembra rinviare quella struttura marmorea ad un altro contesto progettuale e forse addirittura diverso da quello in cui oggi lo si vede (porta settentrionale della cattedrale). Tutto ciò che si può dire con più certezza, partendo dalla forma dei blocchi basamentali su cui poggiano i piedistalli dei suffraganei e le lastre marmoree degli stipiti, è che l’intervento di N. Ferrando sia relativo a una porta. Partendo da questa situazione tettonica, o meglio dall’assemblaggio delle parti marmoree così com’è oggi, e in mancanza di altri documenti storici, si può affermare a questo punto, in termini ancora generali, di non avere elementi tali per sostenere con certezza neppure che Ferrando abbia collocato il suo intervento in quella porta settentrionale. Lo scultore, infatti, potrebbe aver montato in situ inizialmente la porta secondo i suoi criteri operativi e in seguito la medesima potrebbe essere stata modificata (forse già così come oggi si vede) da altro artefice anche prima del 1582.
Dopo la precedente digressione riformuliamo in modo diverso la domanda sottesa nello schema d’ipotesi proposto inizialmente ovvero: quando la parte marmorea sarebbe stata montata dove oggi la vediamo? E meglio ancora: qual è il rapporto fra la parte in pietra leccese e quella marmorea? Si prospettano le seguenti possibilità:
1) gli elementi marmorei sono già montati sulla parete settentrionale “squadernati” così come oggi li vediamo; nel 1582 (1585: questo arco temporale scaturisce dal tener fede in senso ampio al millesimo inciso e agli stemmi presenti sulla porta medesima) quelli in pietra leccese sono stati solo semplicemente ad essi affiancati (il montaggio delle parti marmoree sarebbe estraneo a N. Ferrando);
2) le parti marmoree, spostate da altrove, e quelle in pietra leccese sono tutte a disposizione del progettista nel 1582 (1585) e vengono quindi montate contemporaneamente;
3) i pezzi di marmo sono presenti in situ ovvero nel portale settentrionale e quindi vengono smontati e rimontati ibidem per dare alla porta l’assetto corrente, sempre nel 1582 (1585).
A proposito di quest’ultima ipotesi verrebbe da porsi, però, una domanda che scaturisce dalla pratica del costruire: perché smontare tutto? E meglio ancora: perché adottare una soluzione compositiva (quella a lesene in pietra leccese che oggi vediamo) che avrebbe previsto lo spostamento in avanti (di pochi centimetri, circa 3.5) delle parti marmoree con un aggravio nei tempi e costi di realizzazione? La domanda è dal sapore evidentemente tanto retorico da spingere a soffermarsi solo sulle prime due ipotesi.
Lo spostamento in avanti delle due lesene con i suffraganei sarebbe stato dettato dal fatto che l’affiancamento delle lesene in pietra leccese avrebbe troppo coperto i rispettivi fianchi esterni delle due lesene marmoree se queste ultime fossero state più aderenti al muro di appoggio. D’altro canto però una posizione più indietreggiata delle lesene con i suffraganei avrebbe creato problemi sui rispettivi lati interni dove la loro sporgenza sarebbe scomparsa quasi del tutto rispetto al rivestimento delle lastre marmoree degli stipiti; in sostanza la posizione delle lesene con i suffraganei è strettamente vincolata, per via di spessori e sporgenze relative, almeno alle lastre degli stipiti e a quella con l’epigrafe.
Se facessimo l’operazione virtuale di asportare le due lesene laterali in pietra leccese si noterebbe che quelle con i suffraganei (questo è ancora più facilmente rilevabile osservando la lesena marmorea a destra) si distaccano dal muro di fondo di uno spessore pari approssimativamente a quello delle lesene in pietra leccese (circa cm. 3.2). Possiamo supporre, ad esempio, che tale situazione scaturisca da un montaggio precedente che il costruttore del 1582 (1585) ha di fatto trovato (ipotesi prima). Probabilmente quello strato di malta, necessario per far aderire le lastre marmoree alla parete della cattedrale, era lasciato allo strato grezzo oppure, nella migliore delle ipotesi, sagomato come le modanature marmoree dei vari elementi architettonici (piedistalli e così via).
Al di sopra delle paraste e loro capitelli marmorei poggia però l’architrave a fasce pure marmoreo sporgente di pochi centimetri (quasi quanto lo strato di malta) rispetto alla parete tufacea di fondo. Quest’architrave non mostra alla vista quello strato di malta necessario per farla aderire alla parete posteriore plausibilmente perché in fase di costruzione è stato predisposto uno scavo nella parete tufacea medesima. Il filo esterno del tratto di architrave, nella sua posizione originale, allineato sulla verticale con il lato esterno della lesena marmorea sottostante, come precedentemente mostrato (fig. 10), poggia quindi in falso (e cioè in corrispondenza di uno strato di malta) rispetto ai capitelli e lesene marmoree sottostanti. Ciò apparirebbe quindi una scorrettezza dal punto di vista formale/grammaticale.
Eppure, nonostante quest’anomalia, tutto sembra avere un senso costruttivo perché quell’arretramento dell’architrave ben s’inserisce in un contesto che comprende contemporaneamente lesene in pietra leccese e marmo.
Pur non fornendoci questi ragionamenti una prova decisiva e definitiva rispetto al fatto che Ferrando abbia sistemato i «MONUMENTA» nella porta settentrionale, andrebbe rilevato che tutte le anomalie o particolarità costruttive ora evidenziate sembrano acquistare un senso soprattutto nell’ipotesi che la ricostruzione del portale abbia previsto un nuovo montaggio complessivo delle singole parti (ipotesi seconda) nel 1582 (1585). A questo andrebbe, però, aggiunto un dettaglio forse risolutivo. La parte principale dell’architrave a fasce con la Veronica è in marmo pario (di colore bianco); non deve sorprendere che l’autore utilizzi due qualità di marmo nel portale; tale scelta potrebbe essere stata dettata dalla povertà di risorse e materiali edili in seguito alle devastazioni del 1480. L’elemento più importante è però il cordone con nodi simile a quelli presenti in altri punti del portale medesimo, così come nel monumento funebre di Serafino da Squillace. Una necessaria indagine (giusto per fugare nuovi dubbi) nella cronotassi dei vescovi idruntini subito prima di Serafino (per rimanere in senso ampio nell’ambito cronologico cui apparterrebbe questo elemento architettonico) non ha individuato arcivescovi appartenenti all’Ordine Francescano cui potrebbe alludere anche questo cordone. Sembra plausibile pensare quindi che anche tale architrave a fasce appartenga a un unico intervento compiuto da Ferrando.
L’elemento più rilevante di questo architrave non è però né stilistico né iconografico ma pratico e soprattutto nel tratto centrale. Qui si vedono, infatti, una serie di linee pressoché orizzontali una delle quali danneggia in particolare al centro il volto di Cristo e gli angeli. Quei segni sono indicativi non solo della volontà di ricavare da un blocco iniziale quattro lunghe fasce marmoree con un’altezza pari a circa un quarto dell’altezza del pezzo d’origine ma anche che quell’architrave di oggi era veramente tale ovvero aveva uno spessore. Sarebbe molto importante e forse addirittura dirimente poter verificare con un saggio se quello che vediamo oggi è solo una lastra affogata nel muro e nella malta (come sembrerebbe) oppure se essa abbia uno spessore esteso. La natura di quei segni, finalizzata al reimpiego del materiale, lascia escludere che essi siano stati praticati (e con ciò il tentativo di dividere in quattro l’architrave) a portale composto (nell’attuale o altra posizione). Da ciò sembra possa dirsi che quei segni di taglio potrebbero essere stati realizzati in un momento in cui quella trave era stata già smontata e si pensava di farne altro uso. L’attenzione prestata a questi frammenti marmorei nel 1582 lascerebbe inoltre escludere che il tentativo di tagliare in pezzi longitudinali l’architrave sia avvenuto proprio nel cantiere sancito da quel millesimo.
Tale ultimo indizio lascerebbe supporre che Ferrando non abbia collocato quell’architrave e con esso l’intero portale nell’attuale sede; ciò non esclude la possibilità, però, che siano stati collocati da altri e che sempre lì siano stati rinvenuti montati nel 1582 (1585).
Un dato, riportato nella visita pastorale del 1606, potrebbe aumentare lo spettro delle ipotesi relative al portale marmoreo. Nella relazione dell’arcivescovo De Mora si ricorda come nel 1567, durante l’episcopato di Pietro Antonio de Capua e il sinodo provinciale da questo prelato indetto, ai seggi vescovili già presenti fu aggiunto quello destinato al vescovo di Nardò. Questo evento così come l’eventuale adeguamento della cattedrale otrantina alle conclusioni del concilio di Trento (terminato nel 1564) dove aveva partecipato lo stesso P.A. De Capua potrebbero aver decretato l’inattualità simbolica e funzionale del portale marmoreo di N. Ferrando.
Altro aspetto interessante è legato alla facciata principale della cattedrale a proposito della quale C. Gelao scrive (pp. 55-56): «Ma quello che risulta ancor più interessante nella foto citata è la presenza, al di sopra del rosone, dello stemma di Pietro Antonio de Capua, arcivescovo di Otranto dal 1532 al 1579 (lo stesso presule il cui emblema compare nel fastigio in pietra del portale laterale): stemma inspiegabilmente rimosso durante i restauri, ma che ci permette di dare un senso alle parole del De Giorgi, il quale affermava che “la facciata, eccetto la rosa restata intatta, subì parecchi guasti e restaurati per opera di monsignor P.A. de Capua (1536-1579, riferendosi evidentemente alla presenza dello stemma, che era ancora visibile ai sui tempi. Io credo che, più che dare il via ad ulteriori restauri, il de Capua abbia approfittato delle impalcature, evidentemente ancora in opera, per porre “cappello” sulla facciata, così come aveva già fatto sul portale in pietra della fiancata, eretto nello stesso periodo».
La foto cui fa riferimento la studiosa è tratta da una pubblicazione del 1912. Un’altra foto, datata 1889, della facciata medesima si trova in altra pubblicazione più recente ed è importante perché precedente i restauri della prima metà del secolo scorso che portarono all’eliminazione degli stucchi settecenteschi che decoravano quella facciata. Nei rendiconti di questo intervento non troviamo nessun riferimento all’asportazione di stemmi e parti lapidee, anche se compare una voce generica «cuci e scuci» destinata evidentemente alla sostituzione di parti lapidee. Ciò lascerebbe supporre che fra le componenti decorative asportate vi fossero le due grandi paraste ai lati del portale e lo stemma sormontante il rosone. Quest’ultimo in ogni caso presenta non una ma ben tre sbarre, che nello scudo scendono da destra, diagonalmente, a sinistra. Nello stemma de Capua, invece, si ha una sola banda centrale, che scende da sinistra verso destra, con altra banda al centro (rilevata quasi uguale rispetto alle due laterali lo abbiamo già in precedenza rilevato). La foto del 1889 non appare invertita.
Le decorazioni e la forma dello scudo lasciano supporre che lo stemma sia coerente con la restante decorazione in stucco; esso è riconducibile all’arcivescovo Nicolò Caracciolo, C.R. (1754 – 1766 dimesso) e non, come sostenuto da C. Gelao all’arcivescovo Pietro Antonio de Capua.
Gli elementi architettonici del portale.
Il portale settentrionale della cattedrale di Otranto nel suo assetto attuale è composto da due parti: la prima in marmo (due qualità: pario e venato), la seconda in pietra leccese. All’estremità destra e sinistra vi sono due lesene in pietra locale con loro piedistalli, basi, fusti e capitelli. Adiacenti queste prime lesene esterne, procedendo verso l’interno della porta medesima, vi sono due altre lesene (sempre una per lato) pure complete di capitelli (con le mezze figure a bassorilievo dell’arcivescovo Serafino), fusti (con i ritratti dei suffraganei a bassorilievo), basi e piedistalli, tutte in marmo. Il vano della porta è inquadrato in alto e sui lati da lastre marmoree (le medesime due qualità precedenti) che rivestono gli stipiti e l’architrave in pietra leccese. Tutta questa parte inferiore è sormontata da un architrave a fasce che, nella sua parte centrale, ha la raffigurazione a bassorilievo della Veronica sorretta da due angeli a figura intera; alle estremità della parte mediana sormontante il vano della porta due decorazioni (una per parte), sempre a bassorilievo, raffiguranti un cordone di tipo francescano, che in una sua parte si risolve in una forma circolare al cui interno è la riproduzione scolpita del monogramma «IHS», al centro, a sua volta, di un sole raggiato. Alle estremità, destra e sinistra, dell’architrave si rilevano due spezzoni in pietra leccese sagomati con le medesime modanature dell’architrave marmoreo; di seguito verso l’esterno di questi ultimi, due tratti di architrave marmorea in marmo grigio chiudono compositivamente questa parte in corrispondenza delle sottostanti paraste in pietra leccese. Sopra l’architrave appena descritta è una cornice decorata sormontata da un timpano trapezoidale sempre in pietra leccese. Tre stemmi della medesima pietra sormontano la struttura: due ai lati estremi destro e sinistro poggianti direttamente sulla cornice inferiore, il terzo, quello papale, sul tratto lineare superiore della cornice trapezoidale. Sulle ante lignee della porta sono poi visibili ancora i due stemmi intagliati del committente di questa parte, Mons. Michele Orsi (episcopato: 1722 – 1752), e l’anno di esecuzione della medesima, il 1726. Delle singole lesene si è già ampiamente scritto, per questo motivo meglio soffermarsi sulle parti rimanenti del portale mai fino a ora analizzate in modo sistematico.
L’architrave a fasce con la Veronica.
E’ in marmo bianco eccetto due spezzoni in pietra leccese in prossimità delle estremità destra e sinistra in marmo grigio. C. Gelao, ipotizzando che il portale sia stato composto dopo gli interventi seicenteschi di Mons. G.A. de Santander sulla facciata principale della cattedrale, ritiene quei due spezzoni collegabili proprio all’attività edificatoria di questo arcivescovo (p. 51).
Si è già dimostrato per via documentaria che le parti marmoree dei suffraganei erano già presenti nella porta settentrionale nel 1606 (visita pastorale di quest’anno).
Sulla base dell’analisi sembra probabile che tali conci siano invece stati inseriti nel 1582 e proprio per ospitare le due lesene laterali, tanto è vero che l’ampiezza del segmento di architrave in entrambi i casi (a destra e sinistra) è tale da consentire di collocare i due spezzoni finali di architrave in marmo grigio in posizione corretta rispetto alla sottostante lesena (Fig. 9, il filo esterno dell’architrave è pressoché allineato con il margine esterno di ciascuna lesena in pietra leccese).
A questo proposito va rilevato che pure gli spezzoni conclusivi di architrave in marmo grigio se ricollocati nella loro posizione originaria (togliendo cioè gli spezzoni in pietra leccese) occuperebbero una posizione corretta rispetto alle lesene con le raffigurazioni dei suffraganei (Fig. 10).
I due tratti di architrave in pietra leccese sono stati inoltre opportunamente sagomati in modo da riproporre la successione (uguale per distribuzione, forma e dimensioni; dal basso verso l’alto si hanno elementi tutti lisci: fascia, todino, fascia, gola rovescia, listello) dell’architrave marmorea esistente. Non è da escludere che per uniformare tutte le componenti l’architrave, quelle aggiunte in pietra leccese fossero rifinite originariamente con una tinteggiatura a simulare il marmo.
Legata ai lavori compiuti da Ferrando sembra essere pure una lastra (marmo grigio), oggi al museo diocesano di Otranto, con due angeli inginocchiati che, sullo sfondo di un panno appeso agganciato per punti e decorato con motivi vegetali, reggono un candelabro. Da segnalare che la cornice che delimita superiormente questa lasta è qualitativamente simile a quella dell’architrave a fasce che caratterizza il portale.
La cornice lapidea dell’ordine architettonico
La cornice lapidea appoggiata sopra l’architrave è composta (dal basso verso l’alto) da: una gola rovescia la cui superficie è decorata con un motivo a foglie quasi giustapposte (quella in primo piano di forma semicircolare dal profilo frastagliato con nervatura centrale; quella in secondo piano, parzialmente nascosta dalla prima, con nervatura centrale rialzata; l’articolazione geometrica di queste foglie si può riassumere come una successione di semicirconferenze separate alle estremità da un sottile spazio corrispondente circa alla nervatura centrale del secondo ordine di foglie); un listello liscio; un’alta fascia liscia (corona) delimitata superiormente da un guscio (tale fascia, sporgente rispetto all’architrave sottostante, ha un peduncolo con funzione di gocciolatoio e un soffitto decorato con fiori a quattro petali e capolino; il soffitto è costituito da una fascia incavata per tutta la lunghezza e delimitata anteriormente dal peduncolo, posteriormente da un listello liscio, all’interno vi sono i fiori già descritti); sulla superficie frontale della fascia dal fondo liscio è presente una decorazione, a tutta altezza, composta da baccellature, rimarcate da una sottile incisione perimetrale, con rudentatura sezionata in modo inclinato (la maggior parte verso sinistra guardando il portale) distribuite secondo un ritmo di 1 a 3 (nella parte mediana di questa fascia, nell’intervallo delle dette baccellature, si leggono incise le cifre arabe «1582»); listello liscio; una decorazione composta da quello che potrebbe definirsi una variante del kyma lesbio continuo rovesciato e seminaturalistico in cui semifoglie separate da un breve tratto lineare si alternano con fiori a calice senza stelo; listello liscio; gola diritta su cui, a bassorilievo, è ricavata una decorazione continua di doppie volute incatenate (dall’anello di connessione spiccano coppie di fogliette sopra e sotto assecondanti l’andamento delle volute, queste ultime si arricchiscono nel loro percorso di ulteriori elementi vegetali da esse nascenti); listello. Nella cornice trapezoidale sommitale le modanature sono le medesime eccetto che nella fascia, dove le baccellature sono sostituite da una loro variante di forma rettangolare nella parte sommitale all’interno delle quali è un piano inclinato nascente dal filo inferiore della fascia che si spinge verso l’interno della parte più alta dell’incavo rettangolare medesimo.
Il frontone trapezoidale
L’intervento del 1582, cui apparterrebbe anche questa parte, di fatto ne oblitera un altro (Fig. 11).
Il frontone trapezoidale, gli stemmi (da sinistra verso destra: reale, papale, arcivescovile), la stessa trabeazione in pietra leccese e marmo si sovrappongono e in parte nascondono l’arco a tutto sesto di un portale precedente. Non è da escludere che esso fosse proprio quello esistente all’epoca dell’invasione turca nel 1480, tanto più alla luce di quanto scrive G.M. Laggetto il quale ricorda la porta opposta a quella di cui ci occupiamo che, come la prima citata, potrebbe avere avuto una parte sommitale ad arco.
«Ebbe anco avviso il Duca che l’Agà di detti Turchi, qual pure chiamano Bassà, faceva orazione ogni giorno in una Cappella, quale sta dentro detta Chiesa all’ala del Cortiglio e guarda detta Cappella verso Oriente che ancora v’è, là si serrava con un panno d’avanti e li Turchi stavano in detta ala sopra tavole distese in terra, nella qual Cappella orava detto Bassà; deliberò per questo il Duca ancora di fare ammazzare detto Agà e così tenendo al campo alcuni Cittadini scampati dal muro, dai quali si faceva informare del sito e dell’aspetto della Chiesa e della Cappella, nell’ora che sapevano esservi detto Agà, e fra l’altri tirò uno che mancò poco che non v’avesse colpito quello, che non ingannò manco di mezzo passo sinistro, poiché entrando la palla per donde la cortina di detta Chiesa era battuta, diede sopra l’arco della porta che va a detto Cortiglio che fino a ieri stette così rotto, né mancò niente che non avesse ammazzato l’Agà, qual dì quell’ora in poi non orò più in quella, nemmeno li Turchi vi stettero» (G. M. Laggetto, Historia della Guerra d’Otranto del 1480, pp. 65 – 66; Galatina, Mariano, II, 1940)
Attraverso le pochissime parti visibili è stato possibile ipotizzare la ricostruzione anche, seppure parzialmente, dell’apparato decorativo a semicerchi modanati lungo la ghiera interna. In uno di questi elementi semicircolari C. Gelao scorge una Annunciazione; in effetti è riconoscibile con più certezza solo una parte rettangolare a bassorilievo che, se volessimo accettare la lettura della studiosa, potrebbe essere il leggio tradizionalmente presente proprio in una Annunciazione ma anche in una Annunciata.
Lo stato conservativo della pietra leccese è, però, tale da lasciare questa lettura interpretativa allo stato d’ipotesi tanto più che nella visita pastorale del 1606, quella, fra tutte le esistenti, più dettagliata, nulla si scrive di questa parte semicircolare. Da evidenziare infine che sopra quest’ultimo arco a tutto sesto si rilevano due lunghe tracce ad arco di circonferenza (Fig. 11) che segnano la parete della cattedrale. Si tratta in sostanza di una “doppia intaccatura” che genera una forma ogivale sulla quale poteva essere appoggiato un protiro che sormontava la porta e l’arco sottostanti monumentalizzandoli.
Allo stato attuale delle ricerche non può escludersi che la sporgenza del protiro ipotizzato fosse tale da coprire l’intero pianerottolo antistante la porta; la posizione elevata di quest’ultima rispetto al piano della strada, che costeggia in salita la cattedrale medesima, lascia supporre che tale monumentalizzazione, attraverso un protiro, potrebbe essere stata legata all’uso di questo pianerottolo rialzato anche come loggia delle benedizioni.
Il frammento lapideo
Alla base del tratto centrale della scala che conduce alla porta settentrionale, è un frammento lapideo il quale, dal rilievo metrico, si qualifica come il concio di un arco. Lo stato attuale (il frammento è inserito a filo nel muro) non consente di dire nulla sulla natura del suo spessore (se sia in sostanza una lastra di rivestimento oppure un concio d’arco vero e proprio).
Nella parte centrale è a bassorilievo una decorazione a intreccio. Allo stato attuale delle ricerche non esistono elementi tali da indurre a pensare che questo elemento architettonico non fosse in una delle ghiere componenti quella che potrebbe essere stata anche una porta. Probabilmente quella che, dentro la cattedrale, dalla scala sinistra consente l’accesso alla cripta; qui, infatti, i pochi conci (manca più della metà dell’arco e lo stipite destro) ancora in loco presentano la medesima decorazione a intreccio e struttura rilevabile nel frammento murato. Nell’altra porta, quella della scala a destra, simmetrica alla precedente, gli stipiti e l’arco sono ancora in situ.
Fig. 14: Otranto, cattedrale, prospetto settentrionale, frammento lapideo.
Il portale di Niccolò Ferrando: altre indagini e un’ipotesi
Il rilievo ha reso evidente che il piedistallo della lesena dei suffraganei, così come la lastra pure marmorea che riveste lo stipite (a sinistra) della porta, poggia su un unico blocco basamentale (con decorazione dall’intaglio simile e quella rilevabile sulle parti appena ricordate) in marmo venato il cui profilo contempla uno scarto fra il primo piano frontale definito dalla lesena e il secondo definito dallo stipite. Questo dettaglio lascia ragionevolmente supporre che l’intervento di N. Ferrando si risolvesse proprio in quello di una porta.
C. Gelao ritiene (pp. 51, 55), come già in quest’analisi evidenziato, che la parte marmorea del portale in effetti fosse l’antica porta maggiore della cattedrale, senza però offrire altra concreta motivazione se non il fatto che la rappresentazione dei suffraganei era troppo importante per essere destinata ad una porta laterale (p. 55). In mancanza di prove e, più in generale, d’indizi non si può a rigore escludere però che possa essersi verificata proprio l’ipotesi che nega C. Gelao.
Costatato che l’intervento di N. Ferrando era con plausibilità riferibile a una porta e in mancanza, al momento, di dati che portino ad accettare la proposta di C. Gelao in merito alla porta maggiore della cattedrale quale sede iniziale della parte marmorea del portale oggi laterale, si ritiene opportuno avanzare un’altra ipotesi.
A tal proposito è utile, infatti, ricordare alcune fonti storiche. Prima di tutto la visita pastorale della cattedrale compiuta dall’arcivescovo P.A. de Capua, datata 1538, dove, nella descrizione di coro e altare maggiore, si segnala una porta e poi, a proposito di materiali, si ricorda il marmo.
Non è da escludere quindi che l’intervento di N. Ferrando avesse come oggetto proprio la «porta» (segnalata nella detta visita) che dava accesso al coro, quella sormontata da un grande crocifisso (Visita Pastorale Mons. P.A. de Capua, 1538-40, vol. II, c. 130v, righe: 1728 – 1828).
Se si associasse poi la descrizione della visita pastorale del 1538 (soprattutto quando in essa si fa riferimento a piccole colonne marmoree con i loro capitelli) con le immagini presenti sul portale marmoreo e, in particolare, le raffigurazioni dei suffraganei, sembra plausibile ipotizzare che quelle rappresentazioni con le loro decorazioni simili a nicchie (piatte) siano la fotografia in scultura di una situazione reale ovvero quella degli stalli in cui arcivescovo e suffraganei si sedevano.
Per comprendere meglio qual era l’interno della cattedrale in prossimità dell’altare maggiore appare utile ricordare in più quanto è nella visita pastorale. A proposito di due altari in particolare – il primo dedicato ai santi Pietro e Paolo, il secondo all’Annunciata – apprendiamo che sopra questi ultimi erano collocati dei «pontilia» dai quali erano lette le Epistole e il Vangelo.
La soluzione architettonica del presbiterio della cattedrale di Otranto così come descritta nella visita pastorale del 1538 (quella più antica oggi a disposizione riguardante questo edificio sacro) potrebbe essere abbastanza bene espressa con un’immagine in particolare anche se ancora più datata: la rappresentazione celebre che Giotto fa del presepe costruito da san Francesco (affresco nella basilica francescana di Assisi). L‘esempio ora segnalato potrebbe essere ulteriormente completato pensando anche a un altro riferimento architettonico ovvero la transenna marmorea, realizzata da Mino da Fiesole, Andrea Bregno e Giovanni Dalmata, che separa in due parti la Cappella Sistina in Vaticano. Questa transenna (e se ne osservi in particolare proprio la porta), con una struttura compositiva a paraste decorate, molto simile perciò a quella realizzata da Ferrando oggi nel portale settentrionale della cattedrale otrantina, fu costruita tra il 1475 e il 1481, all’epoca di papa Sisto IV della Rovere, un francescano così come l’arcivescovo Serafino da Squillace.
Fig. 15: Assisi, basilica di San Francesco, Giotto
(fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Presepe_di_Greccio#/media/File:Giotto_-_Legend_of_St_Francis_-_-13-_-_Institution_of_the_Crib_at_Greccio.jpg)
A proposito della parte marmorea andrebbe aggiunta una notazione di carattere tecnico.
E’ utile ricordare che nel portale laterale le lesene di marmo bianco e, soprattutto, gli elementi decorativi collocati immediatamente a destra e sinistra del vano porta, di fatto non sono stipiti propriamente detti ma lastre di rivestimento; questi elementi in sostanza non hanno una funzione strutturale rispetto all’intera porta.
Si è in presenza, infatti, di un rivestimento marmoreo, vere e proprie lastre spesse a tratti anche centimetri quattro, appoggiato sugli stipiti in pietra leccese della porta, le cui facce interne (quelle dell’intradosso) hanno una rifinitura (a tratti molto compromessa dal punto di vista conservativo) costituita per tutta l’altezza da una riquadratura (listello e gola rovescia lisci) al cui centro è una bassa decorazione a bauletto stilisticamente compatibile con la cultura figurativa tardo-cinquecentesca.
Anche la stessa lunga epigrafe è incisa molto probabilmente non su una trave ma su una lastra marmorea collocata sui due rivestimenti frontali, sempre marmorei, degli stipiti veri e propri.
Questo appoggio, che strutturalmente avrebbe “funzionato” fino a che la malta non avesse fatto presa garantendo l’adesione della lastra marmorea (con l’epigrafe) all’architrave in pietra leccese retrostante, potrebbe essere un’altra causa del vistoso spanciamento che contraddistingue a mezza altezza i due stipiti marmorei detti.
E’ da aggiungere poi un altro dettaglio.
La maggior parte della fascia decorativa esterna (stipiti e lunga epigrafe) è costituita da marmo grigio eccetto due pezzi verticali bianchi.
Non si può escludere che sotto l’episcopato di Pietro de Coderos, così come durante quello del suo predecessore, siano stati compiuti lavori anche dentro la cattedrale (forse legati a quello spirito di rinnovamento nato all’interno del Concilio di Trento conclusosi nel 1564 e cioè solo diciotto anni prima della realizzazione del portale medesimo), tanto più in considerazione del fatto che la visita pastorale del 1606 (c. 4v, righe: 2631-2731) riferisce che l’altare maggiore fu consacrato proprio dall’arcivescovo spagnolo. A tale proposito si riporta una nota del 1960, secondo cui durante i lavori di restauro compiuti in quegli anni furono rinvenuti diversi frammenti d’altare, fra cui una grande lastra in pietra leccese scolpita con la raffigurazione dell’Agnus Dei di fattura sempre tardo-cinquecentesca, così come alcuni elementi del portale settentrionale, ma stilisticamente appartenenti ad altro artefice. Tale lastra, come gli altri frammenti, era murata all’interno dell’altare maggiore della cattedrale, ciò ha fatto pensare che essa fosse l’altare maggiore cinquecentesco; a tale proposito si ricorda inoltre quanto è nella visita pastorale del 1606 (c.4v, righe: 2832 – 2932): «[…] et est mar/moreum ex parte anteriori, et superiori».
Nicolò Ferrando e Nuzzo Barba
Una precisazione sembra necessaria, infine, per quanto riguarda lo stringato numero di opere assegnate per via stilistica a N. Ferrando, oltre all’intervento autografo della porta settentrionale.
L’elenco più recente è riportato nel saggio di C. Gelao (p. 43, n. 2) e vede segnalate le seguenti opere: altare di San Benedetto e quello di Santa Caterina d’Alessandria, entrambi nella chiesa dedicata a questa santa a Galatina (Lecce); in via dubitativa una lastra di marmo raffigurante due angeli reggi-candelabro oggi presso il museo diocesano di Otranto (Lecce); un san Michele Arcangelo, chiesa di San Francesco a Gallipoli (Lecce); il monumento sepolcrale dell’arcivescovo Serafino da Squillace nella cattedrale di Otranto (Lecce).
Come già osservato i volti dei piccoli angeli che decorano, in particolare, il fregio dell’altare di San Benedetto (chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, datato 1498) appaiono stilisticamente vicini a quelli delle due figure simili che reggono la Veronica nel portale settentrionale della cattedrale di Otranto. Sulla base di questo apparentamento esecutivo e di disegno l’attribuzione dell’altare di san Benedetto a N. Ferrando sembra quindi condivisibile.
Nel museo diocesano di Otranto, come già qui prima accennato, è una lastra marmorea su cui, a bassorilievo, sono rappresentati due angeli inginocchiati, l’uno di fronte all’altro. I due assieme sollevano una grande pisside oltre la trabeazione posteriore che delimita superiormente la scena e lo fanno con un gesto di levità, quasi in assenza di gravità, senza afferrare il calice con una salda presa ma poggiandone il fondo sui polpastrelli delle loro dita piegate. Con l’altra ognuno di loro rinserra sul ginocchio della propria gamba piegata un candelabro tenendolo stretto nella parte più bassa con la forte presa della mano piegata. Così facendo lo scultore, attraverso gli angeli – la cui testa e sguardo sono rivolti verso l’osservatore – inquadra la pisside fra i candelabri con candele accese e articola in profondità lo spazio rappresentato su tre piani prospettici: il primo, quello delle ginocchia piegate con i candelabri, il secondo è quello al centro destinato alla pisside e infine l’ultimo rappresentato dalla parete di fondo, reale verrebbe da dire, con quella cornice sommitale sotto cui è appeso il telo riccamente decorato con motivi vegetali. L’attribuzione, come qui già ricordato, a N. Ferrando è stata proposta dalla storiografia in via dubitativa. Le figure degli angeli inginocchiati – e il contesto in cui sono inserite – hanno in effetti elementi di carattere talmente generale (la posizione inginocchiata, ad esempio, non costituisce un unicum nella produzione dell’autore) da non ricondurre immediatamente e in modo certo a N. Ferrando. E’ invece nell’analisi del particolare dei volti che quel dubbio potrebbe sciogliersi. La forma/struttura del naso e delle narici, che contribuisce in modo così determinante a costruire l’espressività degli angeli, ritorna molto simile nelle due rappresentazioni a mezza figura dell’arcivescovo Serafino da Squillace presenti nel portale autografato dallo scultore galatinese (fig. 16)
Fig. 16
Confronto stilistico, a sinistra, angelo reggi-candelabro, Otranto, museo diocesano, autore (attr.): N. Ferrando; a destra, Otranto, cattedrale, porta settentrionale, capitello lesena a destra, autore (autografo): N. Ferrando.
Un altro dettaglio molto utile per lo studio stilistico delle opere di N. Ferrando potrebbe essere quello della struttura delle ali angeliche. Esse sono delimitate superiormente da un bordo costituito da piume sovrapposte in sequenza lineare che, diventano via via più lunghe nella parte in basso di ogni ala; la chiusura inferiore o linea interna è costituita spesso invece da un’ampia curva dal profilo segmentato (anche se in modo poco percepibile) per via del piumaggio. La superficie interna dell’ala è costituita, nella parte superiore, da quattro/cinque linee di piume sovrapposte, in quella inferiore da uno o più linee delle medesime ma di maggiore lunghezza. Questo tipo di struttura è riscontrabile negli angeli dell’altare di San Benedetto, nel san Michele Arcangelo e così pure in due altre opere che potrebbero essere attribuite a N. Ferrando (fig. 17): uno stemma a bassorilievo (fig. 18) collocato nella navata sinistra della chiesa di santa Caterina d’Alessandria a Galatina (da rilevare in più come il volto del cherubino sia molto simile a quelli dei due angeli che, nella lunetta alla sommità del monumento sepolcrale di Serafino, reggono lo scudo con all’interno il cordone che circonda l’«IHS» pure scolpiti); un altro stemma lapideo (fig. 19) – collocato sulla facciata a piano terra di un edificio a Galatina (quasi di fronte all’orologio pubblico in via Vittorio Emanuele II) – in cui due angeli nudi a figura intera sostengono un riquadro inquartato con lo stemma d’Aragona e la croce di Gerusalemme. Si segnala in più che tale stemma lapideo è delimitato sopra e sotto da un tipo di modanatura – la cui sezione è assimilabile a una gola rovescia – costituito da due ordini sovrapposti di foglie di cui quelle in primo piano sono risolte internamente con scanalature, una per ogni lobo della foglia, che, incurvate quelle esterne e rettilinee quelle centrali, si sviluppano per tutte le differenti altezze dei lobi medesimi; di simili ne troviamo anche nel monumento sepolcrale dell’arcivescovo Serafino.
Fig. 17
Confronto stilistico; da sinistra a destra: Galatina, chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, navata sinistra, stemma; Gallipoli, chiesa di San Francesco, San Michele Arcangelo; in basso, al centro, Galatina, chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, altare di San Benedetto, angelo nel fregio; al centro, dettaglio dello stemma qui già segnalato; a destra, Otranto, cattedrale, monumento funebre dell’arcivescovo Serafino da Squillace, particolare della lunetta sommitale.
Fig. 18
Galatina, chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, navata sinistra, stemma.
Fig. 19
Galatina, via Vittorio Emanuele II, edificio di fronte all’orologio pubblico, (attr.) N. Ferrando.
Rispetto all’elenco (qui inizialmente riproposto) delle opere attribuite fino ad oggi dalla storiografia a N. Ferrando ne manca volutamente una: l’altare di Santa Caterina d’Alessandria nella chiesa omonima di Galatina.
Quest’assenza scaturisce dal fatto che attraverso un’analisi stilistica tale altare (eccetto la mensa e le semiparaste alle estremità destra e sinistra di epoca successiva a quella di realizzazione dell’altare non datato) sia opera attribuibile, là dove possibile fare i confronti, non a N. Ferrando ma a Nuzzo Barba (notizie 1464 – 1524), scultore pure galatinese.
A tale conclusione spingerebbe, infatti, la forte somiglianza rilevabile dal confronto fra le teste d’angelo presenti nel fregio di questo altare e quelle, sempre nel fregio, dell’altare di Petruccio Bove (datato 1485) nella chiesa dei Domenicani di Bitonto, opera autografa di N. Barba (fig. 20).
Fig. 20
Confronto stilistico: a sinistra, Ostuni, cattedrale, portale maggiore, lunetta sommitale, particolare, (attr. N. Barba ?); al centro, Bitonto, chiesa di San Domenico, monumento funerario di Petruccio Bove, particolare della testa d’angelo nel fregio (autogr. N. Barba); a destra, Galatina, Santa Caterina d’Alessandria, altare della titolare, particolare della testa d’angelo nel fregio (attr. N. Barba).
Data l’importanza di N. Barba nel panorama della scultura Quatto-Cinquecentesca pugliese e alla luce delle scarne informazioni che riguardano la sua attività iniziale, sembra qui opportuno soffermarci sulla sua produzione segnalando pure la vicinanza stilistica fra le dette teste d’angelo (quelle nei due altari: l’uno di Petruccio Bove e l’altro di Santa Caterina) e il medesimo soggetto presente nella decorazione scultorea che sormonta il portale principale della cattedrale di Ostuni (Brindisi), raffigurante una Madonna seduta in un trono centinato con il Bambino fra due coppie di angeli (musicanti quelli a sinistra e forse anche quelli a destra oggi danneggiati) e la figura inginocchiata del committente, il vescovo Arpoide, in basso a sinistra (fig. 21).
Alle spalle del vescovo, su un cartiglio si legge inciso su tre righe di testo preceduto da una croce latina: «MATER DEI MISERERE MEI / NICOLAI ARPOIDE DE TARENTO / EPISCOPI HOSTUNENSIS III». Nicola Arpoide, vescovo di Ostuni, fu in carica dal 1437 al 1470.
Fig. 21
Ostuni, cattedrale, portale maggiore, lunetta sommitale (attr. N. Barba?).
Quel “III” dell’epigrafe incisa potrebbe riferirsi all’anno di episcopato e quindi il 1440. Sembra plausibile collocare entro i termini più generali di quell’episcopato, 1437-1470, la realizzazione della Madonna in trono di cui si è appena detto; considerando poi l’arco temporale fino ad oggi identificato, 1484 – 1524, relativo all’attività artistica di N. Barba, potrebbe non essere inopportuno proporre per tale opera una datazione più prossima al limite superiore del primo intervallo ovvero il 1470.
Non è infine da escludere anche il cantiere della chiesa madre di Noci (Bari), dove almeno una delle figure che decorano il rosone centrale posto sulla facciata principale appare vicina ai modi di questo scultore di Galatina (fig. 22).
Fig. 22
Confronto stilistico: a sinistra, Ostuni, cattedrale, portale maggiore, lunetta sommitale, dettaglio (attr. N. Barba ?); al centro: Noci, chiesa madre, rosone, dettaglio; a destra, Bitonto, San Domenico, monumento funebre di Petruccio Bove, dettaglio (autogr. N. Barba).
Un caso singolare dal punto di vista storico-critico è poi quello relativo al cenotafio di Giovanni Antonio del Balzo Orsini (1401 – 1463: http://www.treccani.it/enciclopedia/orsini-del-balzo-giovanni-antonio_(Dizionario-Biografico) posto oggi a chiudere la prospettiva della poligonale tribuna della chiesa di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina.
La singolarità è nell’assegnazione o meno a N. Barba che di tale monumento la storiografia ha ipotizzato. Non è possibile qui ripercorrere tutte le singole fasi e proposte e si rinvia perciò alla bibliografia indicata in calce a questa parte dell’analisi. Vale la pena però soffermarsi sull’ultima ipotesi in ordine di tempo avanzata da C. Gelao, la quale non riconosce il monumento come opera di N. Barba e lo riferisce al 1562, anche quando P. Teodoro Presta, nella sua opera dedicata alla basilica (p. 41), avanza l’ipotesi, fondata non su una lettura stilistica delle parti ma sulla sola data, considerando quest’ultima come riferibile ad un restauro e non alla costruzione ex novo del monumento. Su tale cenotafio gli stemmi raffigurati rinviano, in effetti, a un momento coerente con la data leggibile, il «1562», incompatibile con i dati biografici di N. Barba. Non sembra però sia stato sufficientemente preso in considerazione un aspetto dell’opera.
Nella parte mediana del monumento (il piano terra) – a raccordare anche strutturalmente la svettante parte centrale superiore con quella inferiore più larga – a destra, è un elemento lapideo decorato con motivi vegetali e animali che è stilisticamente coerente con il 1562.
E’ probabile che per ragioni di simmetria ve ne fosse altro in tutto simile anche nella parte sinistra del medesimo monumento e con le stesse funzioni (decorativa e strutturale).
Il cenotafio che oggi si vede potrebbe essere quindi il frutto di un rifacimento/restauro compiuto proprio nel 1562 operando su una parte precedente (dopo il 1463, anno della morte di Giovanni Antonio, e più in generale nella seconda metà del Quattrocento, in anni cioè più vicini a quelli in cui N. Barba fu attivo) costituita anche da quella centrale con la rappresentazione del corpo di Giovanni Antonio Del Balzo Orsini fra i due angeli reggi-cortina. Per certi aspetti, così come accaduto per il portale di Otranto e negli stessi anni circa, potremmo essere in presenza di un altro intervento di “restauro” con aggiunte e integrazioni a parti più antiche di elementi più recenti (relativi in questo caso al 1562).
Detto ciò non può escludersi a priori almeno un’influenza o un legame (tutto da definire) con N. Barba nella realizzazione (progettuale e/o esecutiva) del cenotafio, in virtù anche di una certa somiglianza fra i volti delle statue delle allegorie presenti alla base del monumento sepolcrale realizzato dal medesimo artista nella chiesa di Santa Maria dell’Isola a Conversano (Bari) e quelli degli angeli che sostengono la tenda oltre la quale è la rappresentazione di G. Antonio del Balzo in abito francescano (G. Lorenzo, L’attività artistica dello scultore galatinese Nuzzo Barba, in «Sallentum», 1979, n. 3, pp. 107-136, in part. p. 108 nota 6; P. Teodoro Presta, La Basilica Orsiniana di Santa Caterina in Galatina, Avegno 1984; C. Gelao, Ancora su Nuzzo Barba a Conversano. Un’ipotesi sulla sua formazione, in «Storia e cultura in Terra di Bari – Studi e ricerche», 2, Galatina 1987, pp. 33 – 41; Idem, L’attività Di Nuzzo Barba a Conversano e le influenze veneto-dalmate nella scultura pugliese del ,Rinascimento, in «Urbs Galatina», Galatina: Editrice Salentina, 1992, pp. 151 – 186; Id., Monumenti funerari cinquecenteschi legati alla committenza Acquaviva D’Aragona, in «Territorio e feudalità nel Mezzogiorno rinascimantale. Il ruolo degli Acquaviva tra XV e XVI secolo», C. Lavarra (a cura di), II, pp. 303 – 348;Id., La scultura del Rinascimento. Aspetti e problematiche, in Scultura del Rinascimento in Puglia, C. Gelao (a cura di), pp. 21 – 25, Bari: Edipuglia, 2004).
Ringraziamenti
Questa analisi storica non sarebbe stata possibile senza la collaborazione delle Arcidiocesi e Diocesi di Otranto, Lecce, Nardò-Gallipoli e dei rispettivi titolari; della Provincia di Lecce e in particolare del Dott. Antonio Gabellone (già presidente) e Dott. Giacomo Mazzeo (già segretario generale); del Prof. Franco Contini, vice direttore dell’Accademia di Belle arti di Lecce; del Dott. Luigi Mazzei.
Lecce/Cultura: Per le Arti e per la Storia
E’ stato recentemente presentato presso l’auditorium del Museo Provinciale “Sigismondo Castromediano” di Lecce il volume Per le Arti e per la Storia, un omaggio a Tonino Cassiano (Congedo Editore: Architettura e Città; N° 10; brossura, pp. 184, 21 x 29,7 cm, illustrato con numerose ill. in BN, Euro 28) a cura di Cazzato Vincenzo, Poso Regina e Vallone Giancarlo. L’opera è il frutto del lavoro di «Diciotto autori […] con ricerche originali e di alto valore scientifico» (http://www.congedoeditore.it/per-le-arti-e-per-la-storia-omaggio-a-tonino-cassiano.html). Nell’impossibilità oggettiva di farne una disamina a trecentosessanta gradi ci soffermeremo in questa analisi principalmente solo su uno dei diciotto saggi presenti perché segnalato con più attenzione proprio durante la presentazione. E’ quello di Clara Gelao ed è intitolato: Quando il restauro può cancellare la memoria: osservazioni sul portale laterale della Cattedrale di Otranto; la medesima è stata curatrice di mostre e autrice altrettanto prolifica di saggi e libri, già direttrice della Pinacoteca Provinciale di Bari “Corrado Giaquinto”; docente in master universitari, vincitrice del “Premio Marangelli” nel 2007 per il suo volume Puglia rinascimentale (http://www.cittametropolitana.ba.it/provinciaba/allegati/8296/CURRICULUM%20VITAE%20CLARA%20GELAO.pdf).
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Il contributo di C. Gelao affronta un aspetto in particolare, già bene esplicitato nel titolo del saggio medesimo, quello del restauro (moderno in questo caso) come momento della perdita di una parte della storia di un monumento. L’argomento è il portale laterale della cattedrale di Otranto, volto a settentrione, oggetto di restauri nel 2005. E’ proprio nel fare il confronto fra le foto precedenti quel restauro e l’attuale situazione che scaturiscono le considerazioni della studiosa. Va però segnalato subito per correttezza che il titolo lascia pensare a un’analisi critica del restauro architettonico nel senso più ampio del termine e invece, in realtà, oltre il confronto fotografico del prima e dopo quel restauro l’autrice non si spinge; il restauro del 2005 di fatto diventa così principalmente il pretesto per lo studio storico di quel portale. Il rapporto fra analisi storica e restauro architettonico è però questione molto delicata oltre che di un’attualità stringente perché chi si occupa del secondo sempre più spesso non esegue con correttezza i necessari, doverosi rilievi architettonici né, ancora più spesso, si dedica ad una ricerca e analisi storica appropriata. A questo si deve aggiungere un altro aspetto apparentemente secondario: ogni fase di restauro dovrebbe essere documentata con un adeguato rilievo, anche fotografico, che dovrebbe essere depositato negli archivi delle soprintendenze. Può poi però accadere paradossalmente, ed è accaduto, che proprio questi uffici periferici del MiBAC (Ministero Beni Ambientali Culturali) consentano con estrema difficoltà l’accesso ai loro archivi storici, interferendo negativamente sulla qualità della ricerca e quindi del restauro medesimo. Non è in ogni caso intenzione di quest’analisi affrontare la questione non facile della critica ai restauri architettonici, che inevitabilmente si deve fondare su una serie di strumenti (rilievi, interviste ai restauratori, analisi storica, conoscenza oggettiva del fare architettura, etc.) che frequentemente mancano in studi di questo tipo.
A differenza di altre recensioni, questa volta, per una maggiore fluidità di lettura si è deciso, se non in pochissimi casi, di non trascrivere i brani dell’autrice del contributo analizzato limitandosi così a indicare più semplicemente la pagina del saggio medesimo. Nelle trascrizioni (epigrafi, documenti), redatte e verificate con Enrico Spedicato, le abbreviazioni sono state sciolte inserendole in minuscolo, il resto del testo si è trascritto invece tutto in maiuscolo; per semplicità di lettura, infine, alcuni dati storici è stato necessario ripeterli in più parti dell’analisi. Detto questo non rimane che concentrarci su quella che è la parte principale del saggio, quella dedicata all’analisi storico-artistica del portale settentrionale della cattedrale di Otranto (fig. 1).
Fig. 1: Cattedrale di Otranto, facciata settentrionale, portale.
Per semplicità riassumiamo subito le conclusioni in merito alla storia del portale realizzato in pietra leccese e due tipi di marmi (pario e venato grigio). C. Gelao, dopo un’ampia dissertazione, colloca la parte in pietra leccese a un anno compreso fra il 1572 ed il 1579 (pp. 50-51) e tutta la parte marmorea in un periodo successivo al 1495 e prima del 1514 (pp. 57; 59); la studiosa ritiene, inoltre, che quella marmorea sia di fatto quanto rimane della porta maggiore della cattedrale e che quest’ultima sia stata spostata a decorare la porta laterale in cui è oggi nella seconda metà del Seicento allorché l’allora arcivescovo Gabriel Adarzo de Santander (Madrid, 1596 – Otranto, 1674, episcopato: 1657 – 1674) costruì, nella facciata principale, l’attuale porta monumentale datata 1674 (pp. 54-55). Queste e altre conclusioni sembrano però quantomeno discutibili. Vediamole nel dettaglio.
Gli stemmi e la datazione delle parti in pietra leccese
Fig. 2
Otranto, cattedrale, porta settentrionale in alto al centro, stemma pontificio di Gregorio XIII.
Fig. 3
Otranto, cattedrale, porta settentrionale in alto a sinistra, stemma reale di Filippo II.
Fig. 4
Otranto, cattedrale, porta settentrionale in alto a destra, stemma arcivescovile di Mons. Pedro de Coderos.
Fig. 5
Otranto, cattedrale, porta settentrionale, evidenziate in rosso le parti in pietra leccese; delimitate da linee blu invece le parti marmoree (tipo1: marmo venato di colore grigio; tipo 2: marmo pario di colore bianco). Il pezzo angolare in alto dello stipite a destra appare qui senza numero perché di natura dubbia anche se più vicino al tipo 2.
Come appena ricordato la datazione della parte in pietra leccese (esclusi due segmenti di architrave del medesimo materiale, p. 51, punto 3) sarebbe da collocarsi fra il 1572 ed il 1579 (pp. 50-51). A tali conclusioni la studiosa giunge sulla base degli stemmi sommitali della porta a cominciare da quello centrale più in alto relativo a papa Gregorio XIII, il cui pontificato iniziò nel 1572 e terminò nel 1585. Altro elemento di datazione che spiegherebbe il limite cronologico superiore l’autrice del saggio lo desume dallo stemma lapideo a destra identificato come quello dell’arcivescovo Pietro Antonio de Capua, in carica dal 1536 al 1579. In merito a quest’ultimo aspetto C. Gelao (p. 48, nota 12) corregge un altro studioso (C. Dell’Aquila, Cronotassi iconografica ed araldica dell’episcopato pugliese, Bari: Levante, 1984) che quest’ultimo stemma aveva invece assegnato a Fabrizio de Capua, zio e predecessore, quale arcivescovo otrantino, di Mons. P.A. de Capua.
Dal rilievo e dall’analisi architettonica del portale emergono però dati diversi da quelli esposti dalla studiosa. Prima di tutto l’opera reca una data incisa a cifre arabe «1582» collocata al centro della cornice della trabeazione che sormonta il portale. Altro dato molto rilevante è lo stemma a destra che C. Gelao riconosce come quello dell’arcivescovo P.A. de Capua. Così non è. Al centro di questo stemma, in alto, compare, infatti, non solo una stella a otto punte ma poi anche altre cinque formalmente analoghe alla prima collocate tre sopra e due sotto il sottile filetto che divide in due parti uguali la banda.
Fig. 6
Otranto, cattedrale, porta settentrionale, la data, «1582», incisa al centro della cornice.
Un’indagine diretta sul sigillo che P.A. de Capua usava per siglare i suoi documenti dimostra, inoltre, che la banda che caratterizza il suo stemma appare divisa sostanzialmente in tre parti uguali nel senso della sua lunghezza (all’interno del museo diocesano di Otranto è uno stemma, descritto qui successivamente, dello stesso arcivescovo in cui la parte centrale è più ampia della parti laterali; all’interno del cortile del seminario è inoltre un altro stemma, senza nappe e copricapo arcivescovile, rinvenuto durante i restauri del 1911; in quest’ultimo caso le bande hanno la medesima larghezza). Si segnala che l’arma de Capua forse più interessante è quella presente sulla vera del fonte battesimale oggi presso il museo diocesano di Otranto. Tale vessillo compare piegato su due lati contigui del fonte ottagonale e in una soluzione bipartita con altro stemma. Di fatto questa bipartizione potrebbe essere legata all’arcivescovo Pietro Antonio attraverso gli stemmi Arcamone (la madre apparteneva a questa famiglia) – de Capua (F. Ughello, Italia sacra, Sebastiano Coleti: Venetiis: apud Sebastianum Coleti, 1721, Tomo IX, colonna 65). Il fonte ha pianta ottagonale con alta cornice basamentale. La chiusura superiore è sorretta visivamente da una serie di lesene piegate a libro poste sugli angoli. Sopra i capitelli a motivi vegetali e sempre in posizione angolata, come già qui osservato, vi sono gli scudi (dalle estremità laterali e superiori accartocciate) partiti piegati in modo da far cadere la metà dei medesimi (con uno dei due stemmi) su ognuno dei lati dell’ottagono. Ciascuna delle metà degli scudi presenta un’estremità che si accartoccia attorno all’ansa della vicina tabula (larga poco più dell’intercolumnio delle lesene sottostanti) con iscrizione incisa. Quello che sembra un dettaglio compositivo di secondaria importanza tale non è in realtà. Soltanto, infatti, mettendosi frontalmente a ogni lato dell’ottagono, l’osservatore avrebbe il miglior punto di vista sia per leggere l’epigrafe di ogni lato sia per vedere la scena scolpita a bassorilievo, posta al di sotto dell’epigrafe medesima fra le lesene angolari piegate, ma soprattutto per leggere la disposizione araldica di quegli stemmi angolari più comunemente usata ovvero quello de Capua (linea paterna) a sinistra e quello Arcamone (linea materna) a destra di chi lo osserva. Per completezza si segnala che la parte sopra gli stemmi e al di sotto del piano di appoggio del bordo è fortemente consunta e perciò non sono leggibili molti dettagli, fra cui eventuali simboli anche religiosi a corredo come il tipico copricapo arcivescovile con le nappe che sormonta gli stemmi degli alti prelati. Lo stato conservativo non impedisce di escludere anche un’altra ipotesi, qualora fosse confermata addirittura l’inesistenza di quegli elementi di corredo cui si accennava, perché in tale caso gli stemmi partiti sarebbero laici e potrebbero far riferimento ai fratelli di P.A. de Capua (risulta ne abbia avuti due: Vincenzo e Giantommaso). Nel museo diocesano di Otranto è uno stemma lapideo di questo arcivescovo (iscrizione in basso su tre righe di cui l’ultima dedicata al millesimo scritto in cifre arabe «1578», un anno prima della sua morte). L’opera è interessante per due altre ragioni: prima di tutto nella parte sommitale, al centro dell’ellisse entro cui è racchiuso lo stemma propriamente detto, spicca una piccola croce latina posta immediatamente sotto il basso e largo copricapo da cui sfioccano i cordoni che si distribuiscono simmetricamente nascendo dal copricapo, scomparendo sotto lo stemma per riapparire sui lati in alto, simmetrici rispetto alle due diagonali del rettangolo che racchiude il tutto, e finire nelle estremità laterali con le tradizionali nappe; la banda centrale dello stemma non è divisa in tre parti uguali, come visto in altre circostanze, essa appare più larga di quelle laterali che la contengono.
Fig 7
Otranto, museo diocesano, fonte battesimale già in cattedrale, stemma partito: a sinistra, Arcamone, a destra, de Capua.
Torniamo al portale. Assodato che lo stemma esistente non è quello dell’arcivescovo P.A. de Capua e considerando in più gli estremi cronologici sia dell’episcopato di questo prelato (1536-1579) che quelli del pontificato di Gregorio XIII (1572-1585), se ne può dedurre che esso è quello del successore di P.A. de Capua ovvero Pietro de Coderos, arcivescovo di Otranto dal 1579 al 1585. Lo stemma di P. de Coderos non compare né nella citata Cronotassi iconografica etc né è stato possibile rilevarlo al momento nella cattedrale (si ha in corso però un’indagine sistematica nei documenti presenti nell’archivio diocesano di Otranto) e parrebbe quindi al momento, con tutte le cautele del caso, un inedito in quanto alla sua identificazione.
A proposito ancora degli stemmi presenti sul medesimo, portale C. Gelao attribuisce quello collocato a sinistra all’«imperatore» Filippo II (p. 49). Quest’ultimo però «Ereditò dal padre i vasti domini in Europa e nelle Americhe, eccetto il titolo di imperatore e il trono asburgico » (http://www.treccani.it/enciclopedia/filippo-ii-re-di-spagna/). D’altro canto poi bisogna rilevare un dettaglio iconografico di non secondaria importanza che crea delle perplessità: l’assenza dell’aquila bicipite. Gli stemmi dell’imperatore Carlo V, padre di Filippo II, e quelli di Ferdinando I d’Asburgo, fratello di Carlo V, cui dopo la morte di quest’ultimo passò la corona imperiale, presentano proprio l’aquila a due teste. Tracce di una corona, plausibilmente però di tipo solo regio, sono, in effetti, ancora visibili sulla testa dell’aquila dello stemma sovrano presente sul portale.
Il portale (parte marmorea) e le iscrizioni
L’opera che qui si analizza è molto interessante anche da un punto di vista epigrafico. In questo caso si ritiene opportuno approfondire quanto scritto da C. Gelao cominciando con la descrizione di un aspetto dell’opera in particolare. Al centro, immediatamente sopra il vano della porta, è un’inscrizione incisa su un supporto marmoreo articolata in quattro righe di testo (nella trascrizione qui proposta, il passaggio di riga è indicato con “/”; a caratteri minuscoli sono le integrazioni del testo che è invece in maiuscolo): «OPPIDO CAPTO A TURCIS Anno SALUTIS MCCCCLXXX PARS MAXIMA TEMPLI CORRUIT QUAM SERAPHINUS ARCHIEPiscopuS INSIGNIS PIETATE RESTAURAVIT POSTERISQue MARMOREA SUFFRAGANEORum MONUMENTA MAGISTRO NICOLAO FERRANDO SCULPtori DE Sancto PETRO FACIUNda MANDAVIT» ovvero: ”Conquistata la città dai turchi nell’anno del Signore 1480, la maggior parte della cattedrale rovinò, l’arcivescovo Serafino, famoso per la pietà, la restaurò e per i posteri ordinò al mastro scultore Nicola Ferrando di Galatina di fare i monumenti dei suffraganei”. Altri testi incisi sono nella parte marmorea là dove si vedono le rappresentazioni dell’arcivescovo committente e quelle dei suffraganei dell’arcidiocesi otrantina.
Nella lesena (http://www.treccani.it/enciclopedia/lesena/ ) a sinistra, ultimo concio in alto, è l’immagine a mezza figura dell’arcivescovo Serafino che, in abiti dell’ordine francescano (Minori Osservanti) cui apparteneva, predica dal pulpito (da notare che l’assenza di spigoli e il restringersi delle scanalature che ne decorano la parte esterna alle estremità lasciano supporre che esso fosse circolare). In particolare nel capitello, completamente reinventato da N. Ferrando (lo si vedrà meglio in seguito), sopra il copricapo del prelato, nella fascia frontale dell’abaco curva e lievemente inclinata verso il basso (per favorire evidentemente la leggibilità di quanto su di essa scritto) si legge sempre inciso «ACHIEPiscopuS SERAPHINus» con un segno lineare di abbreviazione al di sopra delle «EP» e un apice conclusivo alla fine del nome che abbrevia «US»; le due parole sono separate da un punto collocato a metà dell’altezza del testo. Immediatamente sotto la predetta immagine seguono, dall’alto in basso, le rappresentazioni, pure a mezza figura, dei suffraganei ovvero rispettivamente quello di Ugento, di Gallipoli e infine, l’ultimo in basso, quello dell’abate di San Nicola di Casole. I prelati, evidentemente in una posizione di ascolto rispetto al predicatore, sono raffigurati in abiti vescovili o meglio con mitra sul capo, piviale riccamente decorato e, nelle mani di ognuno, il pastorale in quella destra, un libro sacro chiuso in quella sinistra.
Nella lesena marmorea a destra si ripete lo schema compositivo precedente ma con alcune differenze significative nelle singole raffigurazioni. In alto compare ancora la rappresentazione a mezza figura di Serafino ma, questa volta, benedicente e in abiti vescovili. Nell’abaco, stessa posizione della lesena precedente, si legge un testo inciso: «SERAPHinuS METROPOLITA/Nus» (C. Gelao legge invece «SERAPHinuS METROPOLITA», p. 47) con un segno lineare di abbreviazione posto sopra la lettera «H»; l’ultima «O» inserita dentro la parte panciuta della «P» e la «I» finale, più piccola, in posizione apicale rispetto alla «L»; un punto di separazione fra parole è collocato a mezza altezza delle lettere e, incisa sul corno destro dell’abaco, l’ultima lettera «N» seguita da un segno finale sovrapposto all’asta verticale ultima della medesima «N», collocato quasi in apice, a forma di virgola. Nella trascrizione qui proposta si è usato il simbolo “/” per indicare il passaggio dalla parte frontale al corno dell’abaco sulla cui superficie, come detto, è l’incisione.
Immediatamente sotto il benedicente Serafino seguono dall’alto in basso le tre rappresentazioni degli ultimi tre suffraganei (in totale sei) scolpiti a bassorilievo. In questo caso essi sono tutti vescovi ovvero, dall’alto in basso, quello di Lecce, Castro e Alessano, che a mani giunte evidentemente ricevono la benedizione che, quasi in una istantanea, l’arcivescovo otrantino rappresentato nel capitello in alto sta impartendo. Alla base di ciascuna delle sei immagini di vescovi e abate, inquadrate, sopra e sotto, da modanature architettoniche orizzontali, pure a bassorilievo, dal profilo lievemente curvo o meglio bombato, si leggono incise le lettere componenti la denominazione che li identifica sulla base dei nomi delle diocesi (località) di cui erano titolari. Ciascun aggettivo (per il luogo) è preceduto da altro abbreviato con «RMˀ» (in particolare si segnala che sulla gamba inclinata della «R» è un segno trasversale e dopo la «M» in apice compare un simbolo, un tratto curvo, qui sintetizzato per semplicità con un punto interrogativo). Tale «RMˀ», che C. Gelao legge come «P» (pp. 46- 47), è in realtà la forma abbreviata di un aggettivo usato in questo contesto anche per la dignità vescovile, oltre che per l’abate, ovvero «ReverendissiMus». Nella lesena a sinistra si leggono quindi dall’alto in basso le seguenti iscrizioni sotto ogni singola immagine: «ReverendissiMus UGENTINENSIS»; «ReverendissiMus GALIPOLITANENsis»; «ReverendissiMus ABBAS Sancti NIcoLAI De CASULE». Nella lesena a destra si leggono: «ReverendissiMus LICIENCIS»; «ReverendissiMus CASTRENSIS»; «ReverendissiMus ALEXANensis». Alcune delle lettere qui trascritte sono di fatto poco visibili (la qualità e il livello di leggibilità andrebbero segnalati in una trascrizione) ma per una maggiore semplicità esplicativa del testo generale se ne è riportata la versione integrale e senza commenti.
Datazione delle parti marmoree (secondo C. Gelao)
C. Gelao colloca (pp. 56 e succ.) fra il 1495 ed il 1514 (p. 59 in particolare) gli interventi edilizi di Serafino e in particolare la realizzazione sia del portale settentrionale (tutta la parte marmorea senza distinzioni) che del monumento funebre destinato a questo arcivescovo, avanzando «prudentemente» l’ipotesi (pp. 56 – 57) che prima del 1495 il prelato francescano non abbia dato inizio ai “suoi” lavori alla cattedrale di Otranto.
A sollevare delle perplessità su tali conclusioni è di fatto un’affermazione, scaturita da una fonte storica pubblicata nel 1889 e riportata dalla medesima studiosa (p. 56). In accordo con quanto segnalano altri documenti ampiamente noti e ricordati pure dalla stessa C. Gelao, Serafino fu nominato arcivescovo nel 1481 da Sisto IV (pontificato: 1471 – 1484); il fatto che il prelato, dopo tale data, ebbe problemi talmente gravi con Alfonso II, successore di Ferdinando I re di Napoli, da prevedere la sua carcerazione (p. 56) -nel 1494 è segnalato in prigione a Castel dell’Ovo- non può far escludere la possibilità che proprio prima di questo anno, il 1494, egli abbia dato mandato per l’avvio di lavori di restauro nella cattedrale di Otranto. L’assenza di documenti in merito (p. 57) non significa, d’altro canto, né che essi non siano esistiti (potrebbero essere andati dispersi, distrutti, etc) né che un evento architettonico non sia accaduto. Detto in altri termini: in mancanza di ulteriori dati non si può in sintesi escludere a priori che la realizzazione dei «MONUMENTA», così indicati nell’epigrafe, ovvero la parte marmorea del portale, sia avvenuta prima del 1494. L’ipotesi di C. Gelao non può, quindi, essere condivisibile.
Ancora sulla datazione del portale (parte marmorea)
I nominativi di artista e committente dell’opera sono dichiarati nella lunga epigrafe (qui precedentemente trascritta nella sua interezza) collocata proprio sopra il vano della porta; da essa si ricava anche l’origine dello scultore.
Nell’epigrafe è presente l’espressione «[…] POSTERISQue MARMOREA SUFFRAGANEORum MONUMENTA […]». In sostanza l’arcivescovo Serafino da Squillace fece eseguire da N. Ferrando i monumenti marmorei dei suffraganei. Il termine «MOMUMENTA» è utilizzato al plurale pensando evidentemente alle cinque immagini di vescovi e a quella dell’abate poste sui due fusti di lesena.
La parte realizzata dallo scultore Ferrando è composta da due tipi di marmo: il primo, pario, bianco, con cui sono realizzati a bassorilievo le mezze figure dei vescovi e dell’abate (si tratta di due pezzi unici a tutta altezza); il secondo, quello venato, dalla colorazione grigia. Le parti realizzate in marmo grigio sono significativamente prima di tutto la lunga epigrafe dalla quale si sono tratte tutte le informazioni appena qui segnalate e poi: i due piedistalli sotto le lesene con le immagini dei suffraganei, i due spezzoni finali dell’architrave a fasce, i pezzi componenti le basi su cui poggiano a loro volta i piedistalli appena ricordati.
A questi ultimi si aggiungano due altri tratti che rivestono la faccia frontale dei due piedritti e i due capitelli con la raffigurazione del committente, l’arcivescovo Serafino. Con buona probabilità all’elenco precedente andrebbe aggiunto anche il pezzo angolare in alto a destra (esso riveste il piedritto destro), il cui colore è più prossimo al marmo venato della vicina lastra con la lunga iscrizione incisa che non a quello bianco della lastra verticale sottostante a rivestimento sempre del piedritto destro. Sono da aggiungere, infine, le lastre in marmo bianco che rivestono verso l’esterno gli stipiti; in questi casi, nonostante il materiale (e il colore) sia il medesimo dei fusti con i suffraganei, la continuità di disegno e di esecuzione dell’apparato decorativo a bassorilievo nei pezzi analoghi contigui lascia supporre che anche queste parti di marmo bianco siano riferibili all’intervento di N. Ferrando.
Gli elementi apportati dallo scultore galatinese a seguito dell’incarico conferitogli da Serafino sarebbero quindi tutti quelli in marmo grigio più alcune parti in marmo bianco nell’ambito forse di un più generale reimpiego di materiali di pregio (come quelli marmorei) provenienti anche dai danni subiti dalla cattedrale durante l’invasione turca del 1480.
E’ necessario a tale proposito fare un passo indietro e ricordare quanto affermato nel saggio della studiosa dove si ritengono i bassorilievi dei suffraganei come “rappresentazioni astratte” delle sedi dipendenti da quella di Otranto e non ritratti specifici dei singoli prelati raffigurati. C. Gelao quindi critica (p. 50) le conclusioni di un altro studioso, C. Dell’Aquila (in Cronotassi iconografica etc.), il quale identifica i vescovi ritratti con quelli in carica nel 1514.
La differenza fra le ricostruzioni dei due studiosi è fondamentale: nel primo caso, come detto, si avrebbe una raffigurazione astratta, «meramente simbolica» (p. 50) delle sedi suffraganee di quella di Otranto, nel secondo caso, invece, le “fotografie” a bassorilievo di quei vescovi e abate in carica nel 1514. A ben vedere c’è del buono in entrambe le ricostruzioni. Ha ragione C. Gelao quando critica C. Dell’Aquila rispetto alla datazione che quest’ultimo propone del portale marmoreo, il 1514; potrebbe avere ragione invece C. Dell’Aquila quando avanza l’ipotesi che quelle rappresentate possano corrispondere effettivamente alle immagini dei suffraganei in carica al momento dell’esecuzione di quei ritratti. La principale questione da chiarire è però la datazione ovvero in quale anno quelle immagini furono realizzate (e pertanto quale prelato potrebbero raffigurare eventualmente).
Per chiarire proprio quest’ultimo aspetto è necessario analizzare in modo più approfondito le immagini scolpite dei suffraganei. Ciascuno dei religiosi è rappresentato in due tipi di pose (già prima qui segnalate), davanti ad un riquadro immediatamente alle sue spalle e solo parzialmente visibile che a sua volta è davanti ad un elemento architettonico che potrebbe sembrare un’abside (o una nicchia, anche se non vi è alcun accenno grafico di curvatura). Quest’ultima è inquadrata, nelle rappresentazioni dei suffraganei collocate a sinistra, da semplici specchiature sottili con un anello nella loro parte superiore, attraverso cui passa un elemento decorativo (analizzato qui in seguito) filiforme; nelle raffigurazioni collocate a destra, invece, si osservano lesene, nella stessa posizione delle sottili specchiature appena ricordate, espresse in modo sintetico ma complete di piedistalli, basi, fusti (decorati al loro interno con candelabre) e capitelli; il catino di queste “absidi” è decorato con una conchiglia.
Sulla parete di fondo dell’”abside” è un festone a perline (in tutte le tre immagini a destra) agganciato alle lesene laterali con anelli. Nelle immagini dei suffraganei a sinistra i festoni, realizzati in tre modi diversi tra loro, sono appesi nel medesimo modo: essi passano cioè attraverso anelli agganciati alla sommità delle specchiature inquadranti ognuna una sorta di nicchia per scendere poi verticalmente all’interno di quella medesima partitura architettonica. Nella rappresentazione dell’abate di Casole il festone è composto da perline (simili a quelle che si trovano nelle immagini dei suffraganei a destra), da un cordiglio con nodi in quella del vescovo di Gallipoli e, infine, da motivi vegetali a fascio in sequenza lineare in quella del vescovo di Ugento.
Cordoni, cordigli, perline e spighe (o quasi).
I motivi a perline sono presenti sia nei tre ritratti a destra che in quello dell’abate di santa Maria di Casole. C. Gelao ritiene che queste perlinature siano di fatto dei rosari da riferire all’Ordine dei Predicatori (p. 48).
Un caso particolare è invece quello relativo al vescovo di Gallipoli, dove la figura è accompagnata alle sue spalle da un cordone con nodi simile a quelli presenti: nel rosone; nel sepolcro di Serafino da Squillace; nell’architrave a fasce e ai bordi delle lastre marmoree che rivestono gli stipiti in pietra leccese, tutti, questi ultimi, del medesimo portale. L’autore di tali ritratti marmorei sarebbe (anche per via stilistica) sempre N. Ferrando.
Nel caso del vescovo di Gallipoli, e solo in questo, a differenza degli altri “festoni” nei «MONUMENTA», quel cordone con i nodi non sarebbe solo un semplice elemento decorativo ma potrebbe essere indicativo della natura francescana di quel prelato. Il dubbio andrebbe sciolto. A completare questo quadro può essere opportuno considerare un’altra opera scultorea attribuita al medesimo artista. Nella chiesa francescana di Santa Caterina di Alessandria a Galatina (Lecce), navata destra, è un altare, datato 1498, dedicato a san Benedetto la cui statua a figura intera campeggia nella nicchia centrale.
Diversi sono gli aspetti di tale altare da segnalare perché utili a quest’analisi.
Primo fra tutti la data di realizzazione, il 1498, inciso nell’architrave; poi l’apparato decorativo che è attorno alla nicchia e sull’abito del Santo; quindi il volto di quest’ultimo e infine la teoria di piccoli angeli a figura intera presenti nel fregio. I volti di questi ultimi ritornano simili a quelli dei due angeli che sul portale otrantino sorreggono la Veronica; questa vicinanza stilistica, attraverso anche il confronto con altri dati figurativi, rende accettabile l’attribuzione dell’altare allo stesso autore dell’epigrafe autografa marmorea del portale otrantino con i suffraganei.
Il millesimo 1498, inciso sull’altare a Galatina, se messo in relazione con il volto del Santo che è nella sottostante nicchia, in particolare, rivelerebbe come già a questa data lo scultore fosse in grado di esprimere quella caratterizzazione che si riscontra anche a Otranto, nella cattedrale, nel volto della statua raffigurante Serafino da Squillace inginocchiato, collocata nel suo monumento funebre.
Quello che poi si osserva è una sostanziale differenza fra i ritratti dei due volti di Serafino scolpiti sul portale laterale della cattedrale di Otranto e quello del monumento funebre appena ricordato.
Prima ancora che una necessità compendiaria o un’incapacità a eseguire una riproduzione realistica dell’arcivescovo, viene da pensare che quei due ritratti di fatto vogliano rappresentare il prelato quando era più giovane.
Altro aspetto da segnalare è il ricco apparato decorativo dell’altare in Santa Caterina che potrebbe risolvere una questione, così come sollevata da C. Gelao, di non secondaria importanza per la datazione della parte marmorea del portale otrantino.
La studiosa, infatti, nel descrivere le mezze figure dei suffraganei, e in particolare il vescovo di Ugento, segnala sull’abito una fascia decorata da spighe, allusione, afferma la studiosa, dell’appartenenza all’ordine benedettino di quel vescovo (p. 46).
Nella cronotassi dei vescovi di quella diocesi però non si segnala nel Quattrocento alcun vescovo appartenente all’ordine religioso di san Benedetto e non si comprende quindi perché dovrebbe esserci un simbolo benedettino addosso di un vescovo di quella diocesi; in secondo luogo quelle «spighe» tali non sembrano essere in effetti.
Nell’altare di san Benedetto non solo sono presenti spighe vere e proprie (utili quindi per un più plausibile confronto con i motivi presenti sulla mezza figura del portale) ma anche un altro tipo di decorazione, costituito da un fascio di foglie tenute assieme da un nastro e montate in sequenza lineare a formare un festone, appeso, inserito verticalmente, nella lesena.
I motivi presenti nel ritratto (cordone, piviale, mitra) otrantino appaiono più simili al secondo tipo di decorazione incontrato nella statua di san Benedetto che non a spighe (nel ritratto otrantino il motivo è composto da tre coppie di foglie dal profilo superiore frastagliato, simmetricamente disposte l’una a destra l’alta a sinistra di uno stelo centrale, visibile solo alle estremità inferiore e superiore, con una infiorescenza sommitale); tale elemento, oltre che nell’immagine del vescovo di Ugento, è presente anche sull’abito dell’abate di Casole, alle cui spalle si rileva inoltre il motivo a perline cosi come nei ritratti dei suffraganei a destra. Se è vero, secondo quanto sostenuto da C. Gelao, che le «spighe» siano da associare all’ordine benedettino e i grani del rosario all’ordine domenicano, se ne deve concludere che tali ipotesi non possono essere vere contemporaneamente oppure una delle due (spighe – rosario) deve essere falsa o addirittura entrambe false. Da aggiungere, infine, che il motivo a perline, ed è il caso della statua di Serafino inginocchiato in preghiera che è nel suo monumento sepolcrale in cattedrale a Otranto, si può presentare anche nella sua variante traforata, con una interessante accentuazione dei giochi luministici delle superfici marmoree.
Il fatto che tali elementi a perline e a «spighe» siano presenti anche nel ritratto dell’abate di Santa Maria di Casole lascia pertanto propendere per l’idea che quei motivi siano in realtà solo elementi decorativi. Essi quindi non sono grani di rosario nel senso di un riferimento ai Domenicani (a rigore cioè potrebbero essere anche grani ma non con il riferimento a quell’ordine in particolare) e così pure le spighe, che non sono tali, fanno venir meno il riferimento all’ordine benedettino.
C’è un elemento di riflessione in più. La medesima studiosa nella stessa analisi sostiene inoltre che quelli rappresentati siano figure astratte e cioè non riferibili a prelati ben precisi (p. 50), lo si è rilevato. Questo suo ragionamento entrerebbe in contraddizione nel momento in cui la medesima afferma che nella rappresentazione dei suffraganei lo scultore inserirebbe degli espliciti riferimenti a ordini religiosi (avviando con ciò un processo di identificazione indiretto). Fra quelle sedi vescovili e quegli ordini presunti da C. Gelao non è stato mai dimostrato un rapporto nel periodo cui si riferirebbe l’intervento di Ferrando.
In realtà i suffraganei potevano appartenere a qualunque ordine religioso e allo stato attuale delle ricerche non sono emersi elementi in contrario. L’indagine nella cronotassi di quelle sedi, inoltre, non segnala la presenza in contemporanea di vescovi provenienti dall’ordine domenicano, benedettino e francescano fra fine Quattrocento e inizi Cinquecento.
D’altro canto un motivo simile alla detta perlinatura, ad esempio, si riscontra anche nell’altare di san Benedetto. Viene da concludere quindi, sulla base di tutto quanto detto finora, ed una volta di più, che i cordoni a perline o a fasci di foglie potrebbero avere un valore solo decorativo.
Un significato a parte, una sorta di eccezione legata forse al rapporto privilegiato che lo scultore potrebbe avere avuto con l’ordine del Santo di Assisi, invece sembra avere il cordone di tipo francescano (con nodi) che è alle spalle del vescovo di Gallipoli. Potrebbe essere così?
Il cordone, senza nodo, come elemento decorativo è un motivo non infrequente nella scultura quattrocentesca (giusto per rimanere nell’ambito cronologico delle opere di cui ci occupiamo) e lo stesso N. Ferrando d’altro canto lo usa ampiamente proprio nell’altare di san Benedetto qui più volte ricordato. Il tema decorativo compare poi in altre circostanze ma con una sostanziale differenza: la presenza ripetuta dei nodi così come presenti nell’abito francescano. Lo scultore N. Ferrando, confrontando i casi diversi riscontrati, distingue le circostanze dimostrando di riconoscere, quando lo vuole, valore simbolico al cordone di quell’ordine e pure che quando ha bisogno di un semplice cordone per fini solo decorativi lo usa riproducendolo e distinguendolo da quello francescano. Se quindi in uno dei «MONUMENTA» appare quel cordone in particolare sembra plausibile affermare che egli lo faccia con un intento ben preciso. Potrebbe voler dichiarare l’origine francescana del vescovo di Gallipoli raffigurato nel portale?
A questo punto sembra opportuno ricordare, come anche C. Gelao segnala, l’esistenza del “cordiglio francescano” (in cui cioè una parte è annodata): nella lunga epigrafe che contraddistingue il portale; nel rosone (bordo esterno visibile però solo in controfacciata) che è sul prospetto principale della cattedrale otrantina; nella tomba dello stesso arcivescovo Serafino. Aggiungiamo che, sempre nel rosone, un altro cordiglio, più corto del precedente, è nella parte più interna del piccolo occhio centrale (visibile solo dall’esterno, esso è delimitato da una serie di cornici modanate rivestite da piccole foglie). Su quest’ultimo poggia la teoria di sedici colonne lisce con basi, fusti, capitelli (rivestiti di foglie piegate in alto a formare volute) e abachi che sorreggono un ricco motivo decorativo (ad archi ogivali composti di cornici principali e secondarie che si flettono sinuosamente generando un’alta fascia traforata di gusto simile a quello presente in modelli veneziani come il palazzo ducale) su cui è un’articolata trabeazione.
Quest’ultima è, infatti, composta di: un architrave a tre fasce, di cui le centrali separate le une dalle altre da un tondino liscio, conclusa superiormente da una gola rovescia liscia sormontata da un listello pure liscio; segue quindi un fregio (simile, a meno della caratterizzazione del capolino, a quanto è all’interno delle piccole lesene che decorano il fonte battesimale cinquecentesco, oggi nel museo diocesano di Otranto e un tempo nella cattedrale di questa città) il cui spazio interno, inquadrato da modanature (listello, gola rovescia), è scandito da un motivo decorativo costituito da elementi circolari (due simmetrici rispetto a ogni interasse radiale) modanati lisci a bassorilievo al cui centro è un fiore (con capolino, ora tripartito ora quadripartito da foglie ancora chiuse al centro, da cui emerge un primo ordine di otto petali a punta con nervatura centrale e un secondo retrostante con altrettanti petali parzialmente visibili); una cornice liscia modanata (dall’esterno verso l’interno: listello, fascia gola diritta, listello, ampia fascia, ovolo, listello, gola rovescia).
Non abbiamo elementi stilistici certi per attribuire il rosone sempre a N. Ferrando, il che sarebbe significativo da un punto di vista storico-critico rispetto all’uso del cordiglio francescano come elemento decorativo.
A questo proposito si segnala che nella parte del rosone visibile dall’interno dell’edificio la decorazione è costituita dal già ricordato cordiglio con nodi, da una serie di fiori, scolpiti a bassorilievo, simili per disegno e realizzazione a quelli analoghi posti nella parte visibile dall’esterno del medesimo rosone, e soprattutto un angelo posto al centro, in alto, della ghiera. Purtroppo l’intelaiatura metallica a sostegno della chiusura a vetri del rosone ha compromesso il volto di questa figura che così non è più leggibile. Se questo elemento decorativo fosse ancora esistito nella sua interezza avrebbe potuto aiutare molto ad attribuire con più certezza il rosone a N. Ferrando. Solo le ali sono ancora integre e quanto di esse ancora visibile appare differente (a meno di un piccolo dettaglio nella parte superiore dell’ala destra) dal modo in cui lo scultore galatinese realizzava usualmente queste parti.
Quel cordiglio, indipendentemente dall’esecutore, diventa quindi in particolare il simbolo di Serafino per eccellenza e più in generale della sua appartenenza all’ordine francescano (ricordata peraltro a chiare lettere anche nell’epigrafe incisa sulla cassa del suo monumento funebre nella stessa cattedrale).
Se vero questo principio per i casi precedenti, ci si dovrebbe porre una domanda: perché il cordiglio presente nel bassorilievo del vescovo di Gallipoli non può essere a sua volta indicativo dell’appartenenza all’ordine francescano di quest’ultimo vescovo? Un’indagine nella cronotassi dei vescovi gallipolini (Cronotassi iconografica etc. p. 183; https://www.diocesinardogallipoli.org/diocesi-nardo-gallipoli/cronotassi-dei-vescovi-della-diocesi-di-gallipoli/), rivela che appartenenti all’ordine religioso dei Frati Minori, vi furono: Guglielmo da Ponte vescovo di Gallipoli fra il 1412 ed il 1420; Donato da Brindisi, (1424 – 1443); Antonio de Neotero, (1443 – 1445); Antonio de Joannetto (1451 – ?; il successore, Ludovico Spinelli è segnalato a partire dal 1458). Per trovare un successivo vescovo dello stesso ordine religioso nella medesima diocesi è necessario spingersi avanti sino al 1654. Andrebbe ricordato per completezza che l’ultimo di questa serie viene segnalato dalle diverse cronotassi oggi note in modo dubitativo, perché probabilmente relativo alla diocesi di Callipoli in Tracia. Non solo.
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Una ricerca è stata condotta per il periodo 1377-1515 nell’opera che L. Wadding ha dedicato all’ordine francescano (Annales…) e non sono emersi altri vescovi francescani oltre a quelli già qui indicati in precedenza. Possiamo pertanto dedurre le seguenti ipotesi: N. Ferrando, nonostante l’attenzione prestata al significato simbolico del cordiglio francescano nel caso di Serafino, ha utilizzato nella rappresentazione del vescovo di Gallipoli quel tipo di cordone solo con finalità decorative; le evidenze storiche oggi disponibili potrebbero essere incomplete; i «MONUMENTA» potrebbero essere precedenti il 1480 (anni ‘40 / ‘50 del Quattrocento) e reimpiegati da N. Ferrando, anche se a rigore è necessario dire che questa interpretazione non trova riscontro in senso stretto nel testo dell’epigrafe del portale medesimo.
Le scarne informazioni biografiche relative allo scultore N. Ferrando (notizie 1498 – 1514 circa) non aiutano d’altro canto molto in questo senso; ricordare infatti che alla morte di Serafino, avvenuta nel 1514, egli potrebbe avere realizzato il monumento funebre di questo arcivescovo otrantino non è in contrasto con un arco cronologico della sua attività lavorativa tale che sia proponibile l’ipotesi per la quale il vescovo gallipolino raffigurato nel portale otrantino sia uno di quelli in carica negli anni quaranta/cinquanta del Quattrocento.
Lo stato conservativo dell’architrave marmoreo e, si potrebbero aggiungere, i fusti di lesena di marmo bianco con i suffraganei, sembra abbiano vissuto la devastazione e soprattutto i postumi dell’invasione turca del 1480.
Quest’analisi nelle sue conclusioni ultime, se ulteriormente confermate, potrebbe restituirci così anche l’opera più datata che si conosca oggi dello scultore N. Ferrando.
A proposito ancora dei segni del “tempo e delle umane vicende” C. Gelao riconosce come causati da archibugiate (p. 44) un paio di fori circolari presenti sulle immagini di due dei sei suffraganei. Ipotesi non condivisibile quest’ultima, visto che si tratta di fori caratterizzati da una circolarità (centimetri otto circa di diametro) talmente spiccata da essere incompatibile con gli effetti distruttivi prodotti da proiettili e anche di quel tipo di arma.
La trama di questa narrazione sembra infittirsi e lo abbiamo voluto nel tentativo di portare alle estreme conseguenze tutte le ipotesi possibili.
Sulla base di quanto rilevato finora riteniamo di affermare che plausibilmente Ferrando non fu in errore nel rappresentare quel cordiglio francescano, con la precisazione che quel dettaglio, però, non si riferisca al prelato rappresentato. Le fonti fino ad oggi rinvenute non segnalano, infatti, vescovi francescani nella diocesi di Gallipoli se non molti anni prima del fatidico 1480. D’altro canto l’epigrafe si esprime in modo chiaro proprio sui ritratti dei suffraganei. Questa conclusione ci consente di soffermarci ancora di più sull’aspetto artistico. Da rilevare, quindi, come l’utilizzazione di due tipi di marmi e con essi due tipi di colori approda ad una soluzione compositiva bicroma, in cui la rappresentazione del cordiglio, con scopi decorativi, si riferisce allo spazio in cui il prelato è “fotografato”; la presenza in più punti, come qui già rilevato, nella cattedrale di Otranto di quel simbolo francescano lascia supporre che quello rappresentato alle spalle del prelato gallipolino sia proprio una parte dell’edificio restaurato dall’osservante “fra’ Serafino”.
A ciò si aggiunga, infine, un’ulteriore elemento che sembra andare nella medesima e appena rilevata direzione di un utile (per la ricerca) e forse ingenuo realismo. I volti dei suffraganei non appaiono standardizzati, essi si distinguono gli uni dagli altri per la capigliatura, anche se nascosta dalle rispettive mitre, così come da elementi più legati alla fisicità dei singoli (alcuni hanno ad esempio il doppio mento, altri no). Utile è confrontare questi volti con quelli davvero generici, quasi astratti, degli angeli presenti sul medesimo portale oppure con quelli scolpiti su un pannello marmoreo custodito nel museo diocesano di Otranto, oppure ancora, e meglio forse, con il volto dello stesso Serafino presente nel suo monumento funerario. In sintesi sembra si possa dire che N. Ferrando era in grado di dare una caratterizzazione specifica, oltre che cronologica, alle figure umane che ritraeva. Il Serafino arcivescovo raffigurato nei due bassorilievi del portale appare più giovane di quello presente nel suo più volte ricordato monumento funebre; dietro questa differenza fisiognomica si potrebbe sostanziare una differenza cronologica in merito all’esecuzione dei tre ritratti (i due volti sulle paraste del portale e quello del monumento sepolcrale) ben più ampia di quella ipotizzata da C. Gelao (1494 – 1514).
Le tabulae e il “restauro” del 1582
La componente epigrafica cui in parte si è già accennato si dimostra utile anche per un altro aspetto. Ai lati esterni della parte marmorea del portale vi sono due altre paraste con loro piedistalli, basi e capitelli in pietra leccese realizzate plausibilmente sempre nel 1582. Sui capitelli di ognuna di tali paraste è presente un cartiglio scolpito il quale nella sua parte centrale superiore si arrotola su se stesso; nel suo margine inferiore, invece, segue in piano un profilo a due S speculari rispetto all’asse mediano verticale; la forma ricorderebbe quella di un libro aperto. Il testo esistente un tempo su queste «tabulae» (spiegheremo a breve il perché di questo termine latino), di cui sono visibili alcuni caratteri, oggi non è più leggibile, come osserva anche C. Gelao che lascia quindi la questione irrisolta (p. 49).
L’analisi storica, e due visite pastorali in particolare, consentono fortunatamente di colmare questa importante lacuna. In quella del 1837 si riporta addirittura (fig.8) uno schema delle due «tabulae», così sono definite, all’interno del quale Mons. Vincenzo Andrea Grande, all’epoca arcivescovo titolare, riporta il testo, oggi non più leggibile, ovvero i nomi dei suoi predecessori otrantini a partire dal 1163 e fino al 1579, e, all’estremità destra di ogni tabula, anche gli anni di inizio dei rispettivi episcopati. Si segnala significativamente che l’ultimo della lista nella tabula a destra è Pietro de Coderos; ciò conferma il committente (segnalato dallo stemma episcopale a destra) e la data rilevata. L’elenco di nomi e anni d’inizio degli episcopati è inoltre riportato in un’altra visita pastorale, datata 1606, quella di Mons. Lucio De Mora (episcopato: 1606 – 1623). Quest’ultimo inoltre segnala non solo i nominativi dei vescovi (a meno di una sola differenza rispetto all’elenco del 1837) ma rileva anche l’esistenza dei volti dei suffraganei in marmo proprio sulla porta settentrionale.
Fig. 8: Otranto, cattedrale, porta settentrionale; da sinistra verso destra: tabula sinistra; visita pastorale del 1837, riproduzione del contenuto delle due tabulae; tabula destra.
Questa notizia di fatto smentisce quindi la ricostruzione di C. Gelao (p. 55) secondo la quale le parti marmoree con i volti dei suffraganei siano state spostate in occasione della costruzione dell’attuale portale maggiore per opera dell’arcivescovo G.A. de Santander nel 1674.
Nella tabula a sinistra, secondo quanto è nella relazione del 1837 (c. 4), si segnala quanto segue: «Archiepiscopi Hydruntini / Ionathas 1163 / Gulielmus 1189 / Tancredus 1209 / Philippus 1257 / Iacobus 1260 / Mattheus 1260 / Petrus Aurelio Augustinianus 1382 / Argonus 1418». Il penultimo di questa prima lista è inserito nell’interlinea con la stessa calligrafia. Nella tabula a destra il medesimo arcivescovo, Vincenzo Andrea Grande, legge: «Nicolaus 1429 / Stephanus 1453 / Seraphinus 1481 / Fabritius de Capua 1516 / Pietro Antonio de Capua 1528 / Petrus de Coderos 1579».
Nella visita del 1606 (c. 32v) si legge (riga 829) un testo diviso in due colonne. Prima colonna:
«In tabula sinistra ingressus adest inscriptio hoc modo videlicet / Archiepiscopi Hydruntini / Ionathas 1(.)63 / Gulielmus 1(. .)9 / Tancredus (. . .)9 / Philyppus 12(. 🙂 / Iacobus 126(.) / Matheus 1(.)09 / Argonus (. . .)8 ».
Seconda colonna:
«In tabula (dextra) ingressus hocmodo videlicet / Nicolaus 1429 / (Stephanus) 1453 / (Serafinus) 1481 / (Fabri)tius de Capua 1516 / (Petrus Antonius) de Capua 1528 / Petrus de Coderos 1579».
Il testo della visita pastorale del 1606, per le parti che qui interessano, è purtroppo non chiaramente leggibile nella sua interezza. Come già detto esso è però estremamente importante perché dimostra che le immagini dei suffraganei scolpite in marmo decoravano già il portale settentrionale (si veda in particolare quanto è alla c. 32, righe 9 – 20 di 27). La medesima relazione informa poi su un altro dettaglio (c. 32, righe 25 – 27 di 27): «Supra huiusmodi lapidem transversalem ianuae adest quoddam triangulum vacuum / in medio, et circumcirca lapidibus vermiculatis constructum in quod depicta est / imago Beatae Marie Virginis ex texellis sive musayco». In sostanza nello spazio trapezoidale che ancora oggi si vede sulla porta era una rappresentazione della Madonna realizzata a mosaico.
Le fasi costruttive del portale
Prima di approfondire l’argomento anticipato dal titolo è opportuno soffermarsi su una serie di aspetti emersi in fase di rilievo che indirizzano verso una maggiore comprensione della struttura compositiva del portale stesso così come lo vediamo oggi.
Nella successione delle cinque immagini a seguire si sono messi in evidenza alcuni aspetti relativi alle caratteristiche fisiche e geometriche del portale. Nella prima immagine (fig. 9) sono stati evidenziati in blu i due tratti di trabeazione di marmo grigio nella loro posizione attuale; nella successiva (fig. 10) i medesimi spostati in quella che doveva essere la loro posizione originale prima della costruzione del portale così come si vede oggi. Nell’immagine a seguire (fig. 11) si sono evidenziati in blu gli elementi esistenti, in rosso invece, partendo proprio dalle preesistenze, si è ricostruita l’immagine di quello che doveva essere il portale precedente l’attuale. Nella terza immagine di questa serie particolare (fig. 12) si mostrano gli schemi geometrici che emergono dalle parti principali: in blu a sinistra il tratto di lesena con la rappresentazione di Serafino; al centro, sempre in blu, lo schema geometrico relativo al vano della porta; e infine, a destra, gli schemi geometrici delle immagini di tre dei sei prelati suffraganei. Tutti gli schemi -in questo come negli altri casi compatibilmente con fratture delle parti costituenti, rimontaggi, approssimazioni da rilievo, e così via – si è rilevato essere soggetti alla regola del diametro e mezzo. L’altezza della porta è pari a un diametro (larghezza della porta) più la metà del medesimo; l’altezza della figura di Serafino (lesena marmorea a sinistra), misurata dalla linea inferiore dell’abaco alla linea di base su cui poggia la mezza figura vescovile, è pari a circa una volta e mezza la larghezza del pezzo marmoreo in cui è scolpita; per le figure dei suffraganei della lesena marmorea a destra si è partiti dal semicerchio relativo alla decorazione a conchiglia posta alle spalle del religioso. Nell’ultima immagine (fig. 13) si sono riportate, infine, tutte le principali geometrie sottese nella composizione. E’ in corso un ulteriore approfondimento di questi aspetti schematici.
Fig. 9: Otranto, cattedrale, porta settentrionale, in blu evidenziati i tratti marmorei dell’architrave a fasce nella posizione attuale.
Fig. 10: Otranto, cattedrale, porta settentrionale, in blu evidenziati i tratti marmorei dell’architrave a fasce nella probabile posizione originaria prima dell’ampliamento del 1582.
Fig. 11: Otranto, cattedrale, porta settentrionale, in blu evidenziati segni di muratura e tessitura esistente; in rosso e blu la ricostruzione del portale precedente quello del 1582.
Fig. 12: Otranto, cattedrale, porta settentrionale, gli schemi geometrico/proporzionali dei principali elementi costitutivi.
Fig. 13: Otranto, cattedrale, porta settentrionale, geometrie.
Chiarito per via documentaria che il portale marmoreo decorava la porta settentrionale della cattedrale già nel 1606, è da capire se, quando nel 1582 l’arcivescovo Pedro de Coderos (e chi per lui) interviene sullo stesso portale, quella parte marmora era già in situ.
In sostanza al portale marmoreo, nel 1582, è stata semplicemente aggiunta una parte in pietra leccese oppure, sempre nel 1582, si è montato il portale in un nuovo unicum progettuale, un restauro in sostanza che comprendesse parti nuove in pietra leccese e altre più antiche in marmo?
Il tema diventa ancora più interessante perché se ciò fosse dimostrato, quello del 1582 sarebbe un vero e proprio caso di restauro-riuso tanto da ecclissare da un punto di vista storico-critico qualunque considerazione sul restauro del 2005.
Per completezza e chiarezza, data la significatività della questione sollevata, è necessario riportare le parole esatte di C. Gelao la quale afferma (p. 50): «Si obietterà che il portale fatto scolpire da Serafino da Squillace e completato presumibilmente prima della sua morte poté ben essere ampliato successivamente con la messa in opera di piedritti e di un coronamento in pietra che funge da frontone, che gli conferiscono una maggiore maestosità. Ma questo è tassativamente da escludersi perché, a un’osservazione ravvicinata, la parte marmorea, più antica di svariati decenni risulta “sovrapposta” a quella tardo-cinquecentesca, che quindi è stata chiaramente adeguata e manomessa, come mostrano vari indizi visibili nelle foto del 2005, per accogliere tale sovrapposizione».
Indipendentemente da come si intenda quel «”sovrapposta”» (il virgolettato è nel testo originale), andrebbe precisato subito che non siamo in presenza, per le parti marmoree, di piedritti (http://www.treccani.it/enciclopedia/piedritto/) ovvero elementi architettonici con funzione strutturale ma di un rivestimento marmoreo, appunto, applicato superficialmente ai piedritti in pietra leccese; per gli elementi contenenti i suffraganei e così pure quelli collocati alle estremità destra e sinistra del portale si è preferito utilizzare il termine di lesena (http://www.treccani.it/enciclopedia/lesena/) in virtù della loro funzione decorativa.
Alle estremità destra e sinistra del vano della porta si rileva inoltre, una per parte, una lesena (fusto, pezzo unico) appoggiata su un piedistallo (pezzo unico) che a sua volta grava su un basso blocco basamentale (pezzo unico); sul fusto della lesena (all’interno è una decorazione a racemi con terminazioni vegetali e teste canine; sul perimetro un listello liscio tutto in giro a delimitare a sua volta una cornice, verso l’interno, costituita da motivi vegetali d’invenzione) giace il capitello con la tabula qui già precedentemente descritta.
Il fusto della lesena poggia su quella che sembra la parte laterale di un capitello ionico: in sostanza si vedono due rocchetti stretti al centro da un balteo, il tutto rivestito da due lunghe foglie che dal centro con il balteo vanno sinuosamente verso le estremità.
L’aspetto interessante è che questo tipo di decorazione di fatto ripete, interpretando dal punto di vista progettuale secondo il gusto e le forme tardo-cinquecentesche (cosa non infrequente in questo contesto culturale e temporale), lo schema compositivo generale delle paraste adiacenti le prime, quelle marmoree, così ripetendone con buona approssimazione dimensioni e forme.
Questo dato è rilevante. Si ricordi ancora per necessità esplicativa, infatti, che nel suo saggio C. Gelao ha ipotizzato (p. 55) che la parte marmorea possa essere stata il portale della facciata principale della cattedrale otrantina e che (p. 51), fra il 1572 ed il 1579 (datazione che attraverso questa analisi/recensione si è dimostrata non corretta), sulla facciata laterale (settentrionale) viene realizzato il portale i cui elementi sono, sempre secondo la ricostruzione di C. Gelao, le parti in pietra leccese che si stanno adesso analizzando.
Detto questo e constatata la coincidenza dimensionale e formale fra ordine architettonico in pietra leccese e quello in marmo, sarebbe questione tutta da spiegare il perché un portale su una facciata laterale dovrebbe riprendere le medesime dimensioni (i piedistalli ad esempio) e criteri compositivi degli elementi montati su un altro portale posto in un’altra facciata, quella principale. Dal punto di vista della logica compositiva generale non vi è nessuna ragione per farlo in effetti.
Una volta di più l’ipotesi proposta da C. Gelao risulterebbe quindi non accettabile.
Si aggiunge un altro dettaglio. Il portale costruito nel 1582 opera in continuità compositiva con quello marmoreo non solo dal punto di vista dimensionale e formale di alcune sue parti ma anche narrativo, se si vuole utilizzare questo termine.
L’elenco degli arcivescovi inciso sulle due «tabulae» in pietra leccese è a completamento con la “dichiarazione” scultorea delle sedi suffraganee.
Torniamo invece alla descrizione del portale. Il rilievo architettonico mostra che le due lesene laterali in pietra leccese sono di fatto giustapposte a quelle marmoree; la «“sovrapposizione”» (per usare il termine di C. Gelao, p. 50) degli elementi orizzontali sommitali (la cornice ad esempio) e del frontone trapezoidale alla sottostante parte marmorea è un’operazione strutturalmente possibile e non esclude in sostanza proprio l’ipotesi che la stessa C. Gelao ha scartato ovvero quella di un “ampliamento” del portale marmoreo. Da precisare meglio poi il significato di questo ingrandimento perché il vano della porta mantenne la stessa ampiezza; esso nel 1582 non fu allargato rispetto a quello della composizione marmorea di N. Ferrando; quest’ampliamento interessò, infatti, solo l’architrave e fu tanto quanto strettamente necessario a inserire le lesene lapidee alle due estremità.
Un’ipotesi e tanti dettagli
Detto questo l’analisi del portale non può dirsi affatto conclusa perché la constatata giustapposizione cui si accennava è possibile anche nel momento in cui si ricostruisce il portale montando contemporaneamente tutti i pezzi (marmorei e non).
Identificato con A l’insieme delle parti in pietra leccese e con B quello composto dagli elementi marmorei, abbiamo di fatto tre casi:
• A (parte in pietra leccese) è stata montata dopo B (parte marmorea);
• A e B sono stati montati contemporaneamente;
• B è stato montato dopo A che è l’ipotesi avanzata da C. Gelao (p. 51).
La casistica enunciata va riconsiderata rapportandola anche, però, sia alla data che abbiamo rilevato sul portale, il 1582, che a due aspetti fondamentali strettamente connessi: l’assemblaggio (smontaggio e rimontaggio) della parte marmorea che ha generato delle anomalie e , in termini più generali, la localizzazione dei singoli pezzi in situ o meno (il portale marmoreo era già montato). Avremo pertanto: prima ipotesi, nel 1582 le componenti marmoree sono in situ ovvero nell’attuale porta settentrionale quando si aggiungono quelle in pietra leccese (semplicemente A si affianca a B, le anomalie nel montaggio della parte marmorea oggi rilevabili sarebbero precedenti il 1582, le parti lapidee si possono aggiungere senza smontare quelle marmoree eccetto due tratti brevi dell’architrave a fasce); seconda ipotesi (contemporaneità del montaggio), nel 1582 la parte marmorea è trasferita in situ oppure lo è già e in questo caso è smontata e rimontata (le anomalie sono quindi o precedenti il 1582 oppure sono create in questa circostanza); infine, ultima ipotesi, il portale marmoreo è trasferito là dov’è oggi in un momento successivo al 1582 (1585) e precedente o coincidente con l’anno della visita pastorale del 1606 (le anomalie nascono in questo momento).
A tale proposito è quindi molto utile riflettere su un dettaglio, quello cioè della qualità del montaggio delle singole parti, e quindi anche sull’attenzione che N. Ferrando pone nell’esecuzione dei dettagli.
Ai lati dei capitelli delle lesene con i suffraganei vi sono alte e grandi foglie la cui nervatura centrale fa da angolo mentre altre più piccole, componenti la principale e più grande, da quest’ultima si dipartono piegandosi e aprendosi sui lati e sui fronti dei capitelli; altre foglie ancora, invece, salgono e si piegano su se stesse dando vita alle volute.
Il riferimento a questo particolare esecutivo, che di fatto occupa una sottile fascia larga solo pochi centimetri posta sui lati dell’ultima lastra di marmo in alto, non appaia secondario perché è indicativo del modo di lavorare dell’artista.
A quest’attenzione al dettaglio, rilevata in quello e altri punti dell’opera, corrisponde invece altrove nello stesso portale – come ad esempio nel dado del piedistallo marmoreo a sinistra – quella che sembra almeno una disattenzione in fase di messa in opera: nel margine a sinistra del dado (cosa simile accade anche nell’omologo piedistallo a destra) si osserva, infatti, una fascia verticale da rifinire destinata, plausibilmente, a non essere lasciata a vista.
Si aggiunga poi un altro dettaglio ancora: le parti marmoree sporgono dalla parete della cattedrale di una distanza pari a circa centimetri 3.5 (misurata per semplicità in corrispondenza del dado della lesena in pietra leccese a sinistra, sul fusto della medesima si sono rilevati circa cm. 3.2). Questo spazio corrisponde approssimativamente allo strato di malta usato per far aderire alla parete retrostante le lastre marmoree con i volti dei suffraganei.
Soffermiamoci sulla terza ipotesi: la parte di marmo è aggiunta dopo quella di pietra leccese.
Lo spostamento in situ della parte marmorea non può essere avvenuto, come sostenuto da C. Gelao, a seguito della costruzione del portale maggiore della cattedrale nel 1674 (data incisa nell’epigrafe presente nel detto ingresso) e ciò per ragioni documentarie, come si è già avuto modo di dimostrare proprio in quest’analisi. In un ragionamento per assurdo lo spostamento potrebbe essere avvenuto però fra il 1582, anzi 1585 (ultimo anno di episcopato di P. de Coderos, per via dello stemma), e il 1606 -quest’ultimo è il primo anno di episcopato di Mons. Lucio De Mora, autore della visita pastorale in quest’anno compiuta; aggiungiamo che fra il 1585 (1587 per via dei due anni di sede vacante dopo P. de Coderos) e il 1606 si ebbe un solo arcivescovo Marcello Acquaviva- a seguito di altri lavori edili, oltre quelli del 1582 (1585) evidentemente, che non avrebbero però, allo stato attuale delle ricerche, lasciato neanche una traccia dell’autorità religiosa che questi nuovi ipotetici interventi avrebbe fatto eseguire. Se dovessimo, però, soffermarci proprio sulla componente araldica e l’evidenza della data incisa, potremmo supporre che gli unici lavori siano stati quelli relativi al 1582 e conclusi al più proprio nel 1585. A ciò si aggiungano le considerazioni, già qui esposte, relative alla vicinanza formale e dimensionale fra le parti in pietra leccese e quelle marmoree, che spingono verso l’ipotesi di una forma d’integrazione e “contemporaneità progettuale” dei diversi elementi del portale; ciò farebbe venir meno proprio la terza ipotesi che qui si è avanzata.
A quanto già osservato, si potrebbe aggiungere una considerazione pratica con valore incidentale: supporre che la parte in pietra leccese esistesse prima di quella marmorea sottintenderebbe che il portale debba, almeno, avere avuto una sua completezza compositiva ovvero un ordine architettonico completo il quale, al fine di ospitare le parti marmoree, avrebbe dovuto essere inevitabilmente manomesso in un arco temporale, come quello qui evidenziato da rilievo e documento, 1585 – 1606, e, se dovessimo attenerci anche alle evidenze araldiche, addirittura quello del 1582-1585. A ben osservare poi le singole componenti del portale, si constata che, pur essendoci gli elementi di due ordini architettonici (quello in pietra leccese e quello marmoreo), nessuno di essi da solo risulta completo; i due si integrano, anzi, il più recente, quello del 1582-85, completa il più antico in marmo ovvero ciò che è giunto dell’opera compiuta da N. Ferrando.
L’osservazione degli elementi marmorei della porta, anche attraverso il rilievo metrico, così come oggi si vedono, induce quindi a due considerazioni:
a) le modalità di assemblaggio delle singole parti farebbero escludere la possibilità che quelle di marmo, così come oggi montate, siano direttamente riconducibili all’intervento di Ferrando.
b) il livello di definizione o meglio di finitura (non levigatura delle parti laterali delle paraste con i suffraganei ad esempio) sembra rinviare quella struttura marmorea ad un altro contesto progettuale e forse addirittura diverso da quello in cui oggi lo si vede (porta settentrionale della cattedrale). Tutto ciò che si può dire con più certezza, partendo dalla forma dei blocchi basamentali su cui poggiano i piedistalli dei suffraganei e le lastre marmoree degli stipiti, è che l’intervento di N. Ferrando sia relativo a una porta. Partendo da questa situazione tettonica, o meglio dall’assemblaggio delle parti marmoree così com’è oggi, e in mancanza di altri documenti storici, si può affermare a questo punto, in termini ancora generali, di non avere elementi tali per sostenere con certezza neppure che Ferrando abbia collocato il suo intervento in quella porta settentrionale. Lo scultore, infatti, potrebbe aver montato in situ inizialmente la porta secondo i suoi criteri operativi e in seguito la medesima potrebbe essere stata modificata (forse già così come oggi si vede) da altro artefice anche prima del 1582.
Dopo la precedente digressione riformuliamo in modo diverso la domanda sottesa nello schema d’ipotesi proposto inizialmente ovvero: quando la parte marmorea sarebbe stata montata dove oggi la vediamo? E meglio ancora: qual è il rapporto fra la parte in pietra leccese e quella marmorea? Si prospettano le seguenti possibilità:
1) gli elementi marmorei sono già montati sulla parete settentrionale “squadernati” così come oggi li vediamo; nel 1582 (1585: questo arco temporale scaturisce dal tener fede in senso ampio al millesimo inciso e agli stemmi presenti sulla porta medesima) quelli in pietra leccese sono stati solo semplicemente ad essi affiancati (il montaggio delle parti marmoree sarebbe estraneo a N. Ferrando);
2) le parti marmoree, spostate da altrove, e quelle in pietra leccese sono tutte a disposizione del progettista nel 1582 (1585) e vengono quindi montate contemporaneamente;
3) i pezzi di marmo sono presenti in situ ovvero nel portale settentrionale e quindi vengono smontati e rimontati ibidem per dare alla porta l’assetto corrente, sempre nel 1582 (1585).
A proposito di quest’ultima ipotesi verrebbe da porsi, però, una domanda che scaturisce dalla pratica del costruire: perché smontare tutto? E meglio ancora: perché adottare una soluzione compositiva (quella a lesene in pietra leccese che oggi vediamo) che avrebbe previsto lo spostamento in avanti (di pochi centimetri, circa 3.5) delle parti marmoree con un aggravio nei tempi e costi di realizzazione? La domanda è dal sapore evidentemente tanto retorico da spingere a soffermarsi solo sulle prime due ipotesi.
Lo spostamento in avanti delle due lesene con i suffraganei sarebbe stato dettato dal fatto che l’affiancamento delle lesene in pietra leccese avrebbe troppo coperto i rispettivi fianchi esterni delle due lesene marmoree se queste ultime fossero state più aderenti al muro di appoggio. D’altro canto però una posizione più indietreggiata delle lesene con i suffraganei avrebbe creato problemi sui rispettivi lati interni dove la loro sporgenza sarebbe scomparsa quasi del tutto rispetto al rivestimento delle lastre marmoree degli stipiti; in sostanza la posizione delle lesene con i suffraganei è strettamente vincolata, per via di spessori e sporgenze relative, almeno alle lastre degli stipiti e a quella con l’epigrafe.
Se facessimo l’operazione virtuale di asportare le due lesene laterali in pietra leccese si noterebbe che quelle con i suffraganei (questo è ancora più facilmente rilevabile osservando la lesena marmorea a destra) si distaccano dal muro di fondo di uno spessore pari approssimativamente a quello delle lesene in pietra leccese (circa cm. 3.2). Possiamo supporre, ad esempio, che tale situazione scaturisca da un montaggio precedente che il costruttore del 1582 (1585) ha di fatto trovato (ipotesi prima). Probabilmente quello strato di malta, necessario per far aderire le lastre marmoree alla parete della cattedrale, era lasciato allo strato grezzo oppure, nella migliore delle ipotesi, sagomato come le modanature marmoree dei vari elementi architettonici (piedistalli e così via).
Al di sopra delle paraste e loro capitelli marmorei poggia però l’architrave a fasce pure marmoreo sporgente di pochi centimetri (quasi quanto lo strato di malta) rispetto alla parete tufacea di fondo. Quest’architrave non mostra alla vista quello strato di malta necessario per farla aderire alla parete posteriore plausibilmente perché in fase di costruzione è stato predisposto uno scavo nella parete tufacea medesima. Il filo esterno del tratto di architrave, nella sua posizione originale, allineato sulla verticale con il lato esterno della lesena marmorea sottostante, come precedentemente mostrato (fig. 10), poggia quindi in falso (e cioè in corrispondenza di uno strato di malta) rispetto ai capitelli e lesene marmoree sottostanti. Ciò apparirebbe quindi una scorrettezza dal punto di vista formale/grammaticale.
Eppure, nonostante quest’anomalia, tutto sembra avere un senso costruttivo perché quell’arretramento dell’architrave ben s’inserisce in un contesto che comprende contemporaneamente lesene in pietra leccese e marmo.
Pur non fornendoci questi ragionamenti una prova decisiva e definitiva rispetto al fatto che Ferrando abbia sistemato i «MONUMENTA» nella porta settentrionale, andrebbe rilevato che tutte le anomalie o particolarità costruttive ora evidenziate sembrano acquistare un senso soprattutto nell’ipotesi che la ricostruzione del portale abbia previsto un nuovo montaggio complessivo delle singole parti (ipotesi seconda) nel 1582 (1585). A questo andrebbe, però, aggiunto un dettaglio forse risolutivo. La parte principale dell’architrave a fasce con la Veronica è in marmo pario (di colore bianco); non deve sorprendere che l’autore utilizzi due qualità di marmo nel portale; tale scelta potrebbe essere stata dettata dalla povertà di risorse e materiali edili in seguito alle devastazioni del 1480. L’elemento più importante è però il cordone con nodi simile a quelli presenti in altri punti del portale medesimo, così come nel monumento funebre di Serafino da Squillace. Una necessaria indagine (giusto per fugare nuovi dubbi) nella cronotassi dei vescovi idruntini subito prima di Serafino (per rimanere in senso ampio nell’ambito cronologico cui apparterrebbe questo elemento architettonico) non ha individuato arcivescovi appartenenti all’Ordine Francescano cui potrebbe alludere anche questo cordone. Sembra plausibile pensare quindi che anche tale architrave a fasce appartenga a un unico intervento compiuto da Ferrando.
L’elemento più rilevante di questo architrave non è però né stilistico né iconografico ma pratico e soprattutto nel tratto centrale. Qui si vedono, infatti, una serie di linee pressoché orizzontali una delle quali danneggia in particolare al centro il volto di Cristo e gli angeli. Quei segni sono indicativi non solo della volontà di ricavare da un blocco iniziale quattro lunghe fasce marmoree con un’altezza pari a circa un quarto dell’altezza del pezzo d’origine ma anche che quell’architrave di oggi era veramente tale ovvero aveva uno spessore. Sarebbe molto importante e forse addirittura dirimente poter verificare con un saggio se quello che vediamo oggi è solo una lastra affogata nel muro e nella malta (come sembrerebbe) oppure se essa abbia uno spessore esteso. La natura di quei segni, finalizzata al reimpiego del materiale, lascia escludere che essi siano stati praticati (e con ciò il tentativo di dividere in quattro l’architrave) a portale composto (nell’attuale o altra posizione). Da ciò sembra possa dirsi che quei segni di taglio potrebbero essere stati realizzati in un momento in cui quella trave era stata già smontata e si pensava di farne altro uso. L’attenzione prestata a questi frammenti marmorei nel 1582 lascerebbe inoltre escludere che il tentativo di tagliare in pezzi longitudinali l’architrave sia avvenuto proprio nel cantiere sancito da quel millesimo.
Tale ultimo indizio lascerebbe supporre che Ferrando non abbia collocato quell’architrave e con esso l’intero portale nell’attuale sede; ciò non esclude la possibilità, però, che siano stati collocati da altri e che sempre lì siano stati rinvenuti montati nel 1582 (1585).
Un dato, riportato nella visita pastorale del 1606, potrebbe aumentare lo spettro delle ipotesi relative al portale marmoreo. Nella relazione dell’arcivescovo De Mora si ricorda come nel 1567, durante l’episcopato di Pietro Antonio de Capua e il sinodo provinciale da questo prelato indetto, ai seggi vescovili già presenti fu aggiunto quello destinato al vescovo di Nardò. Questo evento così come l’eventuale adeguamento della cattedrale otrantina alle conclusioni del concilio di Trento (terminato nel 1564) dove aveva partecipato lo stesso P.A. De Capua potrebbero aver decretato l’inattualità simbolica e funzionale del portale marmoreo di N. Ferrando.
Altro aspetto interessante è legato alla facciata principale della cattedrale a proposito della quale C. Gelao scrive (pp. 55-56): «Ma quello che risulta ancor più interessante nella foto citata è la presenza, al di sopra del rosone, dello stemma di Pietro Antonio de Capua, arcivescovo di Otranto dal 1532 al 1579 (lo stesso presule il cui emblema compare nel fastigio in pietra del portale laterale): stemma inspiegabilmente rimosso durante i restauri, ma che ci permette di dare un senso alle parole del De Giorgi, il quale affermava che “la facciata, eccetto la rosa restata intatta, subì parecchi guasti e restaurati per opera di monsignor P.A. de Capua (1536-1579, riferendosi evidentemente alla presenza dello stemma, che era ancora visibile ai sui tempi. Io credo che, più che dare il via ad ulteriori restauri, il de Capua abbia approfittato delle impalcature, evidentemente ancora in opera, per porre “cappello” sulla facciata, così come aveva già fatto sul portale in pietra della fiancata, eretto nello stesso periodo».
La foto cui fa riferimento la studiosa è tratta da una pubblicazione del 1912. Un’altra foto, datata 1889, della facciata medesima si trova in altra pubblicazione più recente ed è importante perché precedente i restauri della prima metà del secolo scorso che portarono all’eliminazione degli stucchi settecenteschi che decoravano quella facciata. Nei rendiconti di questo intervento non troviamo nessun riferimento all’asportazione di stemmi e parti lapidee, anche se compare una voce generica «cuci e scuci» destinata evidentemente alla sostituzione di parti lapidee. Ciò lascerebbe supporre che fra le componenti decorative asportate vi fossero le due grandi paraste ai lati del portale e lo stemma sormontante il rosone. Quest’ultimo in ogni caso presenta non una ma ben tre sbarre, che nello scudo scendono da destra, diagonalmente, a sinistra. Nello stemma de Capua, invece, si ha una sola banda centrale, che scende da sinistra verso destra, con altra banda al centro (rilevata quasi uguale rispetto alle due laterali lo abbiamo già in precedenza rilevato). La foto del 1889 non appare invertita.
Le decorazioni e la forma dello scudo lasciano supporre che lo stemma sia coerente con la restante decorazione in stucco; esso è riconducibile all’arcivescovo Nicolò Caracciolo, C.R. (1754 – 1766 dimesso) e non, come sostenuto da C. Gelao all’arcivescovo Pietro Antonio de Capua.
Gli elementi architettonici del portale.
Il portale settentrionale della cattedrale di Otranto nel suo assetto attuale è composto da due parti: la prima in marmo (due qualità: pario e venato), la seconda in pietra leccese. All’estremità destra e sinistra vi sono due lesene in pietra locale con loro piedistalli, basi, fusti e capitelli. Adiacenti queste prime lesene esterne, procedendo verso l’interno della porta medesima, vi sono due altre lesene (sempre una per lato) pure complete di capitelli (con le mezze figure a bassorilievo dell’arcivescovo Serafino), fusti (con i ritratti dei suffraganei a bassorilievo), basi e piedistalli, tutte in marmo. Il vano della porta è inquadrato in alto e sui lati da lastre marmoree (le medesime due qualità precedenti) che rivestono gli stipiti e l’architrave in pietra leccese. Tutta questa parte inferiore è sormontata da un architrave a fasce che, nella sua parte centrale, ha la raffigurazione a bassorilievo della Veronica sorretta da due angeli a figura intera; alle estremità della parte mediana sormontante il vano della porta due decorazioni (una per parte), sempre a bassorilievo, raffiguranti un cordone di tipo francescano, che in una sua parte si risolve in una forma circolare al cui interno è la riproduzione scolpita del monogramma «IHS», al centro, a sua volta, di un sole raggiato. Alle estremità, destra e sinistra, dell’architrave si rilevano due spezzoni in pietra leccese sagomati con le medesime modanature dell’architrave marmoreo; di seguito verso l’esterno di questi ultimi, due tratti di architrave marmorea in marmo grigio chiudono compositivamente questa parte in corrispondenza delle sottostanti paraste in pietra leccese. Sopra l’architrave appena descritta è una cornice decorata sormontata da un timpano trapezoidale sempre in pietra leccese. Tre stemmi della medesima pietra sormontano la struttura: due ai lati estremi destro e sinistro poggianti direttamente sulla cornice inferiore, il terzo, quello papale, sul tratto lineare superiore della cornice trapezoidale. Sulle ante lignee della porta sono poi visibili ancora i due stemmi intagliati del committente di questa parte, Mons. Michele Orsi (episcopato: 1722 – 1752), e l’anno di esecuzione della medesima, il 1726. Delle singole lesene si è già ampiamente scritto, per questo motivo meglio soffermarsi sulle parti rimanenti del portale mai fino a ora analizzate in modo sistematico.
L’architrave a fasce con la Veronica.
E’ in marmo bianco eccetto due spezzoni in pietra leccese in prossimità delle estremità destra e sinistra in marmo grigio. C. Gelao, ipotizzando che il portale sia stato composto dopo gli interventi seicenteschi di Mons. G.A. de Santander sulla facciata principale della cattedrale, ritiene quei due spezzoni collegabili proprio all’attività edificatoria di questo arcivescovo (p. 51).
Si è già dimostrato per via documentaria che le parti marmoree dei suffraganei erano già presenti nella porta settentrionale nel 1606 (visita pastorale di quest’anno).
Sulla base dell’analisi sembra probabile che tali conci siano invece stati inseriti nel 1582 e proprio per ospitare le due lesene laterali, tanto è vero che l’ampiezza del segmento di architrave in entrambi i casi (a destra e sinistra) è tale da consentire di collocare i due spezzoni finali di architrave in marmo grigio in posizione corretta rispetto alla sottostante lesena (Fig. 9, il filo esterno dell’architrave è pressoché allineato con il margine esterno di ciascuna lesena in pietra leccese).
A questo proposito va rilevato che pure gli spezzoni conclusivi di architrave in marmo grigio se ricollocati nella loro posizione originaria (togliendo cioè gli spezzoni in pietra leccese) occuperebbero una posizione corretta rispetto alle lesene con le raffigurazioni dei suffraganei (Fig. 10).
I due tratti di architrave in pietra leccese sono stati inoltre opportunamente sagomati in modo da riproporre la successione (uguale per distribuzione, forma e dimensioni; dal basso verso l’alto si hanno elementi tutti lisci: fascia, todino, fascia, gola rovescia, listello) dell’architrave marmorea esistente. Non è da escludere che per uniformare tutte le componenti l’architrave, quelle aggiunte in pietra leccese fossero rifinite originariamente con una tinteggiatura a simulare il marmo.
Legata ai lavori compiuti da Ferrando sembra essere pure una lastra (marmo grigio), oggi al museo diocesano di Otranto, con due angeli inginocchiati che, sullo sfondo di un panno appeso agganciato per punti e decorato con motivi vegetali, reggono un candelabro. Da segnalare che la cornice che delimita superiormente questa lasta è qualitativamente simile a quella dell’architrave a fasce che caratterizza il portale.
La cornice lapidea dell’ordine architettonico
La cornice lapidea appoggiata sopra l’architrave è composta (dal basso verso l’alto) da: una gola rovescia la cui superficie è decorata con un motivo a foglie quasi giustapposte (quella in primo piano di forma semicircolare dal profilo frastagliato con nervatura centrale; quella in secondo piano, parzialmente nascosta dalla prima, con nervatura centrale rialzata; l’articolazione geometrica di queste foglie si può riassumere come una successione di semicirconferenze separate alle estremità da un sottile spazio corrispondente circa alla nervatura centrale del secondo ordine di foglie); un listello liscio; un’alta fascia liscia (corona) delimitata superiormente da un guscio (tale fascia, sporgente rispetto all’architrave sottostante, ha un peduncolo con funzione di gocciolatoio e un soffitto decorato con fiori a quattro petali e capolino; il soffitto è costituito da una fascia incavata per tutta la lunghezza e delimitata anteriormente dal peduncolo, posteriormente da un listello liscio, all’interno vi sono i fiori già descritti); sulla superficie frontale della fascia dal fondo liscio è presente una decorazione, a tutta altezza, composta da baccellature, rimarcate da una sottile incisione perimetrale, con rudentatura sezionata in modo inclinato (la maggior parte verso sinistra guardando il portale) distribuite secondo un ritmo di 1 a 3 (nella parte mediana di questa fascia, nell’intervallo delle dette baccellature, si leggono incise le cifre arabe «1582»); listello liscio; una decorazione composta da quello che potrebbe definirsi una variante del kyma lesbio continuo rovesciato e seminaturalistico in cui semifoglie separate da un breve tratto lineare si alternano con fiori a calice senza stelo; listello liscio; gola diritta su cui, a bassorilievo, è ricavata una decorazione continua di doppie volute incatenate (dall’anello di connessione spiccano coppie di fogliette sopra e sotto assecondanti l’andamento delle volute, queste ultime si arricchiscono nel loro percorso di ulteriori elementi vegetali da esse nascenti); listello. Nella cornice trapezoidale sommitale le modanature sono le medesime eccetto che nella fascia, dove le baccellature sono sostituite da una loro variante di forma rettangolare nella parte sommitale all’interno delle quali è un piano inclinato nascente dal filo inferiore della fascia che si spinge verso l’interno della parte più alta dell’incavo rettangolare medesimo.
Il frontone trapezoidale
L’intervento del 1582, cui apparterrebbe anche questa parte, di fatto ne oblitera un altro (Fig. 11).
Il frontone trapezoidale, gli stemmi (da sinistra verso destra: reale, papale, arcivescovile), la stessa trabeazione in pietra leccese e marmo si sovrappongono e in parte nascondono l’arco a tutto sesto di un portale precedente. Non è da escludere che esso fosse proprio quello esistente all’epoca dell’invasione turca nel 1480, tanto più alla luce di quanto scrive G.M. Laggetto il quale ricorda la porta opposta a quella di cui ci occupiamo che, come la prima citata, potrebbe avere avuto una parte sommitale ad arco.
«Ebbe anco avviso il Duca che l’Agà di detti Turchi, qual pure chiamano Bassà, faceva orazione ogni giorno in una Cappella, quale sta dentro detta Chiesa all’ala del Cortiglio e guarda detta Cappella verso Oriente che ancora v’è, là si serrava con un panno d’avanti e li Turchi stavano in detta ala sopra tavole distese in terra, nella qual Cappella orava detto Bassà; deliberò per questo il Duca ancora di fare ammazzare detto Agà e così tenendo al campo alcuni Cittadini scampati dal muro, dai quali si faceva informare del sito e dell’aspetto della Chiesa e della Cappella, nell’ora che sapevano esservi detto Agà, e fra l’altri tirò uno che mancò poco che non v’avesse colpito quello, che non ingannò manco di mezzo passo sinistro, poiché entrando la palla per donde la cortina di detta Chiesa era battuta, diede sopra l’arco della porta che va a detto Cortiglio che fino a ieri stette così rotto, né mancò niente che non avesse ammazzato l’Agà, qual dì quell’ora in poi non orò più in quella, nemmeno li Turchi vi stettero» (G. M. Laggetto, Historia della Guerra d’Otranto del 1480, pp. 65 – 66; Galatina, Mariano, II, 1940)
Attraverso le pochissime parti visibili è stato possibile ipotizzare la ricostruzione anche, seppure parzialmente, dell’apparato decorativo a semicerchi modanati lungo la ghiera interna. In uno di questi elementi semicircolari C. Gelao scorge una Annunciazione; in effetti è riconoscibile con più certezza solo una parte rettangolare a bassorilievo che, se volessimo accettare la lettura della studiosa, potrebbe essere il leggio tradizionalmente presente proprio in una Annunciazione ma anche in una Annunciata.
Lo stato conservativo della pietra leccese è, però, tale da lasciare questa lettura interpretativa allo stato d’ipotesi tanto più che nella visita pastorale del 1606, quella, fra tutte le esistenti, più dettagliata, nulla si scrive di questa parte semicircolare. Da evidenziare infine che sopra quest’ultimo arco a tutto sesto si rilevano due lunghe tracce ad arco di circonferenza (Fig. 11) che segnano la parete della cattedrale. Si tratta in sostanza di una “doppia intaccatura” che genera una forma ogivale sulla quale poteva essere appoggiato un protiro che sormontava la porta e l’arco sottostanti monumentalizzandoli.
Allo stato attuale delle ricerche non può escludersi che la sporgenza del protiro ipotizzato fosse tale da coprire l’intero pianerottolo antistante la porta; la posizione elevata di quest’ultima rispetto al piano della strada, che costeggia in salita la cattedrale medesima, lascia supporre che tale monumentalizzazione, attraverso un protiro, potrebbe essere stata legata all’uso di questo pianerottolo rialzato anche come loggia delle benedizioni.
Il frammento lapideo
Alla base del tratto centrale della scala che conduce alla porta settentrionale, è un frammento lapideo il quale, dal rilievo metrico, si qualifica come il concio di un arco. Lo stato attuale (il frammento è inserito a filo nel muro) non consente di dire nulla sulla natura del suo spessore (se sia in sostanza una lastra di rivestimento oppure un concio d’arco vero e proprio).
Nella parte centrale è a bassorilievo una decorazione a intreccio. Allo stato attuale delle ricerche non esistono elementi tali da indurre a pensare che questo elemento architettonico non fosse in una delle ghiere componenti quella che potrebbe essere stata anche una porta. Probabilmente quella che, dentro la cattedrale, dalla scala sinistra consente l’accesso alla cripta; qui, infatti, i pochi conci (manca più della metà dell’arco e lo stipite destro) ancora in loco presentano la medesima decorazione a intreccio e struttura rilevabile nel frammento murato. Nell’altra porta, quella della scala a destra, simmetrica alla precedente, gli stipiti e l’arco sono ancora in situ.
Fig. 14: Otranto, cattedrale, prospetto settentrionale, frammento lapideo.
Il portale di Niccolò Ferrando: altre indagini e un’ipotesi
Il rilievo ha reso evidente che il piedistallo della lesena dei suffraganei, così come la lastra pure marmorea che riveste lo stipite (a sinistra) della porta, poggia su un unico blocco basamentale (con decorazione dall’intaglio simile e quella rilevabile sulle parti appena ricordate) in marmo venato il cui profilo contempla uno scarto fra il primo piano frontale definito dalla lesena e il secondo definito dallo stipite. Questo dettaglio lascia ragionevolmente supporre che l’intervento di N. Ferrando si risolvesse proprio in quello di una porta.
C. Gelao ritiene (pp. 51, 55), come già in quest’analisi evidenziato, che la parte marmorea del portale in effetti fosse l’antica porta maggiore della cattedrale, senza però offrire altra concreta motivazione se non il fatto che la rappresentazione dei suffraganei era troppo importante per essere destinata ad una porta laterale (p. 55). In mancanza di prove e, più in generale, d’indizi non si può a rigore escludere però che possa essersi verificata proprio l’ipotesi che nega C. Gelao.
Costatato che l’intervento di N. Ferrando era con plausibilità riferibile a una porta e in mancanza, al momento, di dati che portino ad accettare la proposta di C. Gelao in merito alla porta maggiore della cattedrale quale sede iniziale della parte marmorea del portale oggi laterale, si ritiene opportuno avanzare un’altra ipotesi.
A tal proposito è utile, infatti, ricordare alcune fonti storiche. Prima di tutto la visita pastorale della cattedrale compiuta dall’arcivescovo P.A. de Capua, datata 1538, dove, nella descrizione di coro e altare maggiore, si segnala una porta e poi, a proposito di materiali, si ricorda il marmo.
Non è da escludere quindi che l’intervento di N. Ferrando avesse come oggetto proprio la «porta» (segnalata nella detta visita) che dava accesso al coro, quella sormontata da un grande crocifisso (Visita Pastorale Mons. P.A. de Capua, 1538-40, vol. II, c. 130v, righe: 1728 – 1828).
Se si associasse poi la descrizione della visita pastorale del 1538 (soprattutto quando in essa si fa riferimento a piccole colonne marmoree con i loro capitelli) con le immagini presenti sul portale marmoreo e, in particolare, le raffigurazioni dei suffraganei, sembra plausibile ipotizzare che quelle rappresentazioni con le loro decorazioni simili a nicchie (piatte) siano la fotografia in scultura di una situazione reale ovvero quella degli stalli in cui arcivescovo e suffraganei si sedevano.
Per comprendere meglio qual era l’interno della cattedrale in prossimità dell’altare maggiore appare utile ricordare in più quanto è nella visita pastorale. A proposito di due altari in particolare – il primo dedicato ai santi Pietro e Paolo, il secondo all’Annunciata – apprendiamo che sopra questi ultimi erano collocati dei «pontilia» dai quali erano lette le Epistole e il Vangelo.
La soluzione architettonica del presbiterio della cattedrale di Otranto così come descritta nella visita pastorale del 1538 (quella più antica oggi a disposizione riguardante questo edificio sacro) potrebbe essere abbastanza bene espressa con un’immagine in particolare anche se ancora più datata: la rappresentazione celebre che Giotto fa del presepe costruito da san Francesco (affresco nella basilica francescana di Assisi). L‘esempio ora segnalato potrebbe essere ulteriormente completato pensando anche a un altro riferimento architettonico ovvero la transenna marmorea, realizzata da Mino da Fiesole, Andrea Bregno e Giovanni Dalmata, che separa in due parti la Cappella Sistina in Vaticano. Questa transenna (e se ne osservi in particolare proprio la porta), con una struttura compositiva a paraste decorate, molto simile perciò a quella realizzata da Ferrando oggi nel portale settentrionale della cattedrale otrantina, fu costruita tra il 1475 e il 1481, all’epoca di papa Sisto IV della Rovere, un francescano così come l’arcivescovo Serafino da Squillace.
Fig. 15: Assisi, basilica di San Francesco, Giotto
(fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Presepe_di_Greccio#/media/File:Giotto_-_Legend_of_St_Francis_-_-13-_-_Institution_of_the_Crib_at_Greccio.jpg)
A proposito della parte marmorea andrebbe aggiunta una notazione di carattere tecnico.
E’ utile ricordare che nel portale laterale le lesene di marmo bianco e, soprattutto, gli elementi decorativi collocati immediatamente a destra e sinistra del vano porta, di fatto non sono stipiti propriamente detti ma lastre di rivestimento; questi elementi in sostanza non hanno una funzione strutturale rispetto all’intera porta.
Si è in presenza, infatti, di un rivestimento marmoreo, vere e proprie lastre spesse a tratti anche centimetri quattro, appoggiato sugli stipiti in pietra leccese della porta, le cui facce interne (quelle dell’intradosso) hanno una rifinitura (a tratti molto compromessa dal punto di vista conservativo) costituita per tutta l’altezza da una riquadratura (listello e gola rovescia lisci) al cui centro è una bassa decorazione a bauletto stilisticamente compatibile con la cultura figurativa tardo-cinquecentesca.
Anche la stessa lunga epigrafe è incisa molto probabilmente non su una trave ma su una lastra marmorea collocata sui due rivestimenti frontali, sempre marmorei, degli stipiti veri e propri.
Questo appoggio, che strutturalmente avrebbe “funzionato” fino a che la malta non avesse fatto presa garantendo l’adesione della lastra marmorea (con l’epigrafe) all’architrave in pietra leccese retrostante, potrebbe essere un’altra causa del vistoso spanciamento che contraddistingue a mezza altezza i due stipiti marmorei detti.
E’ da aggiungere poi un altro dettaglio.
La maggior parte della fascia decorativa esterna (stipiti e lunga epigrafe) è costituita da marmo grigio eccetto due pezzi verticali bianchi.
Non si può escludere che sotto l’episcopato di Pietro de Coderos, così come durante quello del suo predecessore, siano stati compiuti lavori anche dentro la cattedrale (forse legati a quello spirito di rinnovamento nato all’interno del Concilio di Trento conclusosi nel 1564 e cioè solo diciotto anni prima della realizzazione del portale medesimo), tanto più in considerazione del fatto che la visita pastorale del 1606 (c. 4v, righe: 2631-2731) riferisce che l’altare maggiore fu consacrato proprio dall’arcivescovo spagnolo. A tale proposito si riporta una nota del 1960, secondo cui durante i lavori di restauro compiuti in quegli anni furono rinvenuti diversi frammenti d’altare, fra cui una grande lastra in pietra leccese scolpita con la raffigurazione dell’Agnus Dei di fattura sempre tardo-cinquecentesca, così come alcuni elementi del portale settentrionale, ma stilisticamente appartenenti ad altro artefice. Tale lastra, come gli altri frammenti, era murata all’interno dell’altare maggiore della cattedrale, ciò ha fatto pensare che essa fosse l’altare maggiore cinquecentesco; a tale proposito si ricorda inoltre quanto è nella visita pastorale del 1606 (c.4v, righe: 2832 – 2932): «[…] et est mar/moreum ex parte anteriori, et superiori».
Nicolò Ferrando e Nuzzo Barba
Una precisazione sembra necessaria, infine, per quanto riguarda lo stringato numero di opere assegnate per via stilistica a N. Ferrando, oltre all’intervento autografo della porta settentrionale.
L’elenco più recente è riportato nel saggio di C. Gelao (p. 43, n. 2) e vede segnalate le seguenti opere: altare di San Benedetto e quello di Santa Caterina d’Alessandria, entrambi nella chiesa dedicata a questa santa a Galatina (Lecce); in via dubitativa una lastra di marmo raffigurante due angeli reggi-candelabro oggi presso il museo diocesano di Otranto (Lecce); un san Michele Arcangelo, chiesa di San Francesco a Gallipoli (Lecce); il monumento sepolcrale dell’arcivescovo Serafino da Squillace nella cattedrale di Otranto (Lecce).
Come già osservato i volti dei piccoli angeli che decorano, in particolare, il fregio dell’altare di San Benedetto (chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, datato 1498) appaiono stilisticamente vicini a quelli delle due figure simili che reggono la Veronica nel portale settentrionale della cattedrale di Otranto. Sulla base di questo apparentamento esecutivo e di disegno l’attribuzione dell’altare di san Benedetto a N. Ferrando sembra quindi condivisibile.
Nel museo diocesano di Otranto, come già qui prima accennato, è una lastra marmorea su cui, a bassorilievo, sono rappresentati due angeli inginocchiati, l’uno di fronte all’altro. I due assieme sollevano una grande pisside oltre la trabeazione posteriore che delimita superiormente la scena e lo fanno con un gesto di levità, quasi in assenza di gravità, senza afferrare il calice con una salda presa ma poggiandone il fondo sui polpastrelli delle loro dita piegate. Con l’altra ognuno di loro rinserra sul ginocchio della propria gamba piegata un candelabro tenendolo stretto nella parte più bassa con la forte presa della mano piegata. Così facendo lo scultore, attraverso gli angeli – la cui testa e sguardo sono rivolti verso l’osservatore – inquadra la pisside fra i candelabri con candele accese e articola in profondità lo spazio rappresentato su tre piani prospettici: il primo, quello delle ginocchia piegate con i candelabri, il secondo è quello al centro destinato alla pisside e infine l’ultimo rappresentato dalla parete di fondo, reale verrebbe da dire, con quella cornice sommitale sotto cui è appeso il telo riccamente decorato con motivi vegetali. L’attribuzione, come qui già ricordato, a N. Ferrando è stata proposta dalla storiografia in via dubitativa. Le figure degli angeli inginocchiati – e il contesto in cui sono inserite – hanno in effetti elementi di carattere talmente generale (la posizione inginocchiata, ad esempio, non costituisce un unicum nella produzione dell’autore) da non ricondurre immediatamente e in modo certo a N. Ferrando. E’ invece nell’analisi del particolare dei volti che quel dubbio potrebbe sciogliersi. La forma/struttura del naso e delle narici, che contribuisce in modo così determinante a costruire l’espressività degli angeli, ritorna molto simile nelle due rappresentazioni a mezza figura dell’arcivescovo Serafino da Squillace presenti nel portale autografato dallo scultore galatinese (fig. 16)
Fig. 16
Confronto stilistico, a sinistra, angelo reggi-candelabro, Otranto, museo diocesano, autore (attr.): N. Ferrando; a destra, Otranto, cattedrale, porta settentrionale, capitello lesena a destra, autore (autografo): N. Ferrando.
Un altro dettaglio molto utile per lo studio stilistico delle opere di N. Ferrando potrebbe essere quello della struttura delle ali angeliche. Esse sono delimitate superiormente da un bordo costituito da piume sovrapposte in sequenza lineare che, diventano via via più lunghe nella parte in basso di ogni ala; la chiusura inferiore o linea interna è costituita spesso invece da un’ampia curva dal profilo segmentato (anche se in modo poco percepibile) per via del piumaggio. La superficie interna dell’ala è costituita, nella parte superiore, da quattro/cinque linee di piume sovrapposte, in quella inferiore da uno o più linee delle medesime ma di maggiore lunghezza. Questo tipo di struttura è riscontrabile negli angeli dell’altare di San Benedetto, nel san Michele Arcangelo e così pure in due altre opere che potrebbero essere attribuite a N. Ferrando (fig. 17): uno stemma a bassorilievo (fig. 18) collocato nella navata sinistra della chiesa di santa Caterina d’Alessandria a Galatina (da rilevare in più come il volto del cherubino sia molto simile a quelli dei due angeli che, nella lunetta alla sommità del monumento sepolcrale di Serafino, reggono lo scudo con all’interno il cordone che circonda l’«IHS» pure scolpiti); un altro stemma lapideo (fig. 19) – collocato sulla facciata a piano terra di un edificio a Galatina (quasi di fronte all’orologio pubblico in via Vittorio Emanuele II) – in cui due angeli nudi a figura intera sostengono un riquadro inquartato con lo stemma d’Aragona e la croce di Gerusalemme. Si segnala in più che tale stemma lapideo è delimitato sopra e sotto da un tipo di modanatura – la cui sezione è assimilabile a una gola rovescia – costituito da due ordini sovrapposti di foglie di cui quelle in primo piano sono risolte internamente con scanalature, una per ogni lobo della foglia, che, incurvate quelle esterne e rettilinee quelle centrali, si sviluppano per tutte le differenti altezze dei lobi medesimi; di simili ne troviamo anche nel monumento sepolcrale dell’arcivescovo Serafino.
Fig. 17
Confronto stilistico; da sinistra a destra: Galatina, chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, navata sinistra, stemma; Gallipoli, chiesa di San Francesco, San Michele Arcangelo; in basso, al centro, Galatina, chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, altare di San Benedetto, angelo nel fregio; al centro, dettaglio dello stemma qui già segnalato; a destra, Otranto, cattedrale, monumento funebre dell’arcivescovo Serafino da Squillace, particolare della lunetta sommitale.
Fig. 18
Galatina, chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, navata sinistra, stemma.
Fig. 19
Galatina, via Vittorio Emanuele II, edificio di fronte all’orologio pubblico, (attr.) N. Ferrando.
Rispetto all’elenco (qui inizialmente riproposto) delle opere attribuite fino ad oggi dalla storiografia a N. Ferrando ne manca volutamente una: l’altare di Santa Caterina d’Alessandria nella chiesa omonima di Galatina.
Quest’assenza scaturisce dal fatto che attraverso un’analisi stilistica tale altare (eccetto la mensa e le semiparaste alle estremità destra e sinistra di epoca successiva a quella di realizzazione dell’altare non datato) sia opera attribuibile, là dove possibile fare i confronti, non a N. Ferrando ma a Nuzzo Barba (notizie 1464 – 1524), scultore pure galatinese.
A tale conclusione spingerebbe, infatti, la forte somiglianza rilevabile dal confronto fra le teste d’angelo presenti nel fregio di questo altare e quelle, sempre nel fregio, dell’altare di Petruccio Bove (datato 1485) nella chiesa dei Domenicani di Bitonto, opera autografa di N. Barba (fig. 20).
Fig. 20
Confronto stilistico: a sinistra, Ostuni, cattedrale, portale maggiore, lunetta sommitale, particolare, (attr. N. Barba ?); al centro, Bitonto, chiesa di San Domenico, monumento funerario di Petruccio Bove, particolare della testa d’angelo nel fregio (autogr. N. Barba); a destra, Galatina, Santa Caterina d’Alessandria, altare della titolare, particolare della testa d’angelo nel fregio (attr. N. Barba).
Data l’importanza di N. Barba nel panorama della scultura Quatto-Cinquecentesca pugliese e alla luce delle scarne informazioni che riguardano la sua attività iniziale, sembra qui opportuno soffermarci sulla sua produzione segnalando pure la vicinanza stilistica fra le dette teste d’angelo (quelle nei due altari: l’uno di Petruccio Bove e l’altro di Santa Caterina) e il medesimo soggetto presente nella decorazione scultorea che sormonta il portale principale della cattedrale di Ostuni (Brindisi), raffigurante una Madonna seduta in un trono centinato con il Bambino fra due coppie di angeli (musicanti quelli a sinistra e forse anche quelli a destra oggi danneggiati) e la figura inginocchiata del committente, il vescovo Arpoide, in basso a sinistra (fig. 21).
Alle spalle del vescovo, su un cartiglio si legge inciso su tre righe di testo preceduto da una croce latina: «MATER DEI MISERERE MEI / NICOLAI ARPOIDE DE TARENTO / EPISCOPI HOSTUNENSIS III». Nicola Arpoide, terzo vescovo di Ostuni, fu in carica dal 1437 al 1470.
Fig. 21
Ostuni, cattedrale, portale maggiore, lunetta sommitale (attr. N. Barba?).
Sembra plausibile collocare entro i termini più generali di quell’episcopato, 1437-1470, la realizzazione della Madonna in trono di cui si è appena detto; considerando poi l’arco temporale fino ad oggi identificato, 1484 – 1524, relativo all’attività artistica di N. Barba, potrebbe non essere inopportuno proporre per tale opera una datazione più prossima al limite superiore del primo intervallo ovvero il 1470.
Non è infine da escludere anche il cantiere della chiesa madre di Noci (Bari), dove almeno una delle figure che decorano il rosone centrale posto sulla facciata principale appare vicina ai modi di questo scultore di Galatina (fig. 22).
Fig. 22
Confronto stilistico: a sinistra, Ostuni, cattedrale, portale maggiore, lunetta sommitale, dettaglio (attr. N. Barba ?); al centro: Noci, chiesa madre, rosone, dettaglio; a destra, Bitonto, San Domenico, monumento funebre di Petruccio Bove, dettaglio (autogr. N. Barba).
Un caso singolare dal punto di vista storico-critico è poi quello relativo al cenotafio di Giovanni Antonio del Balzo Orsini (1401 – 1463: http://www.treccani.it/enciclopedia/orsini-del-balzo-giovanni-antonio_(Dizionario-Biografico) posto oggi a chiudere la prospettiva della poligonale tribuna della chiesa di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina.
La singolarità è nell’assegnazione o meno a N. Barba che di tale monumento la storiografia ha ipotizzato. Non è possibile qui ripercorrere tutte le singole fasi e proposte e si rinvia perciò alla bibliografia indicata in calce a questa parte dell’analisi. Vale la pena però soffermarsi sull’ultima ipotesi in ordine di tempo avanzata da C. Gelao, la quale non riconosce il monumento come opera di N. Barba e lo riferisce al 1562, anche quando P. Teodoro Presta, nella sua opera dedicata alla basilica (p. 41), avanza l’ipotesi, fondata non su una lettura stilistica delle parti ma sulla sola data, considerando quest’ultima come riferibile ad un restauro e non alla costruzione ex novo del monumento. Su tale cenotafio gli stemmi raffigurati rinviano, in effetti, a un momento coerente con la data leggibile, il «1562», incompatibile con i dati biografici di N. Barba. Non sembra però sia stato sufficientemente preso in considerazione un aspetto dell’opera.
Nella parte mediana del monumento (il piano terra) – a raccordare anche strutturalmente la svettante parte centrale superiore con quella inferiore più larga – a destra, è un elemento lapideo decorato con motivi vegetali e animali che è stilisticamente coerente con il 1562.
E’ probabile che per ragioni di simmetria ve ne fosse altro in tutto simile anche nella parte sinistra del medesimo monumento e con le stesse funzioni (decorativa e strutturale).
Il cenotafio che oggi si vede potrebbe essere quindi il frutto di un rifacimento/restauro compiuto proprio nel 1562 operando su una parte precedente (dopo il 1463, anno della morte di Giovanni Antonio, e più in generale nella seconda metà del Quattrocento, in anni cioè più vicini a quelli in cui N. Barba fu attivo) costituita anche da quella centrale con la rappresentazione del corpo di Giovanni Antonio Del Balzo Orsini fra i due angeli reggi-cortina. Per certi aspetti, così come accaduto per il portale di Otranto e negli stessi anni circa, potremmo essere in presenza di un altro intervento di “restauro” con aggiunte e integrazioni a parti più antiche di elementi più recenti (relativi in questo caso al 1562).
Detto ciò non può escludersi a priori almeno un’influenza o un legame (tutto da definire) con N. Barba nella realizzazione (progettuale e/o esecutiva) del cenotafio, in virtù anche di una certa somiglianza fra i volti delle statue delle allegorie presenti alla base del monumento sepolcrale realizzato dal medesimo artista nella chiesa di Santa Maria dell’Isola a Conversano (Bari) e quelli degli angeli che sostengono la tenda oltre la quale è la rappresentazione di G. Antonio del Balzo in abito francescano (G. Lorenzo, L’attività artistica dello scultore galatinese Nuzzo Barba, in «Sallentum», 1979, n. 3, pp. 107-136, in part. p. 108 nota 6; P. Teodoro Presta, La Basilica Orsiniana di Santa Caterina in Galatina, Avegno 1984; C. Gelao, Ancora su Nuzzo Barba a Conversano. Un’ipotesi sulla sua formazione, in «Storia e cultura in Terra di Bari – Studi e ricerche», 2, Galatina 1987, pp. 33 – 41; Idem, L’attività Di Nuzzo Barba a Conversano e le influenze veneto-dalmate nella scultura pugliese del ,Rinascimento, in «Urbs Galatina», Galatina: Editrice Salentina, 1992, pp. 151 – 186; Id., Monumenti funerari cinquecenteschi legati alla committenza Acquaviva D’Aragona, in «Territorio e feudalità nel Mezzogiorno rinascimantale. Il ruolo degli Acquaviva tra XV e XVI secolo», C. Lavarra (a cura di), II, pp. 303 – 348;Id., La scultura del Rinascimento. Aspetti e problematiche, in Scultura del Rinascimento in Puglia, C. Gelao (a cura di), pp. 21 – 25, Bari: Edipuglia, 2004).
Ringraziamenti
Questa analisi storica non sarebbe stata possibile senza la collaborazione delle Arcidiocesi e Diocesi di Otranto, Lecce, Nardò-Gallipoli e dei rispettivi titolari; della Provincia di Lecce e in particolare del Dott. Antonio Gabellone (già presidente) e Dott. Giacomo Mazzeo (già segretario generale); del Prof. Franco Contini, vice direttore dell’Accademia di Belle arti di Lecce; del Dott. Luigi Mazzei.
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