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Otranto, un’inedita lettura del cinquecentesco altare dei Martiri a Otranto

Summarium

Nell’articolo precedente [1] si è affrontato un tema singolare ovvero quello di come, contrariamente a quanto sostenuto da Hubert Houben [2], le epigrafi (l’una reca inciso il nome e l’altra l’anno di realizzazione; ognuna di esse è collocata in una tabula ansata) presenti su due fusti delle “colonne” dell’antico altare dedicato ai Martiri nella cattedrale di Otranto (Le) non possano essere dei falsi sei-settecenteschi.

Fra le due tabulae ansatae la più importante, ai fini del processo di beatificazione del 1771, è quella con la data incisa, il “1524” (Figg. 1-2); questo perché all’epoca con essa si dimostrò che il culto di quei Martiri avveniva ab immemorabili ossia da più di cento anni. L’alias della prova di genuinità del contenuto di quell’epigrafe è, in effetti, la datazione, almeno quella più probabile, attraverso la lettura e l’analisi degli elementi che caratterizzano ciò che rimane di quelle “colonne” (fusti e capitelli), opera di Gabriele Riccardo (notizie: 1524-1572). E di tale datazione ci occuperemo.

Fig 1, Otranto (Le), cattedrale, navata destra, “colonne” (fusti e capitelli) dell’altare dedicato ai Martiri precedente l’attuale.

Fig 2, Otranto (Le), cattedrale, navata destra, “colonne” (fusti e capitelli) dell’altare dedicato ai Martiri precedente l’attuale, particolare del fusto in posizione C, inciso su tre righe di testo si legge: «M / CCCCC / XXIIII» – “1524”.

L’analisi

A quando, secondo Houben, risalirebbero le “colonne”? A tal proposito il medesimo scrive:

«Dato che su una di esse [colonne, n.d.r.] viene raffigurata l’effigie di Carlo V, che governò dal 1516 al 1556, quest’ultimo anno deve essere considerato un “terminus ante quem” dell’opera. Mi sembra probabile una commissione posteriore al processo informativo del 1539 e alla visita pastorale del 1538-40, nella quale il ciborio reliquiario non viene menzionato, a differenza di quanto avviene invece in occasione della visita del 1608» [3].

Non si può nascondere che, dopo tali affermazioni, il mistero sembrava infittirsi attorno alla figura di Riccardo, soprattutto alla luce del fatto che siamo dinanzi, sempre secondo Houben, all’ipotesi di un falso, l’“anno inciso”, finalizzato alla canonizzazione dei Martiri idruntini. Tale questione sarà adesso affrontata ancora una volta ma da un altro punto di vista in modo da confermare ulteriormente le conclusioni del nostro precedente articolo, qui già ricordato nella prima nota, dedicato al medesimo argomento.

Procediamo, quindi, per gradi ponendo l’attenzione alla datazione di quei fusti e capitelli, ipotizzando che l’anno inciso, “1524”, sia un falso. Soffermiamoci, prima di tutto, sulle figure e quindi sui personaggi storici più o meno direttamente chiamati in causa in questa vicenda artistica, a cominciare dall’imperatore Carlo V (1500-1558).

Le date che rivestono un’importanza fondamentale nella vita di tale sovrano sono: il 23 gennaio 1516 [4], anno in cui muore il nonno materno Ferdinando II, detto il Cattolico, da cui avrà in eredità i regni di Aragona, Sicilia e Napoli (per rimanere solo ai titoli principali). Il regno di Castiglia [5], invece, alla morte di Isabella, moglie del predetto Ferdinando, avvenuta nel 1504, passò a Filippo il Bello (1478 – 1506) e alla moglie di questi, Giovanna (1479-1555), figlia dei Re Cattolici; morto Filippo, per l’infermità mentale della coniuge, quel regno passò proprio al padre di lei, Ferdinando, in qualità di reggente.

Carlo fu proclamato, assieme alla madre Giovanna, re di Spagna (per citare solo il principale dei titoli) il 13 marzo 1516 [6]. Il nonno paterno, l’imperatore Massimiliano I, morì il 12 gennaio 1519. Il giovane fu eletto Rex Romanorum il 28 giugno 1519 [7]; l’incoronazione avvenne ad Aquisgrana il 23 ottobre 1520 [8]; è, infine, incoronato imperatore a Bologna il 24 febbraio 1530 [9]. A proposito dei titoli si ricorda:

«Qualche settimana più tardi, il cancelliere espose il suo particolareggiato parere sui titoli, stemmi, sigilli e monete del nuovo imperatore. Giudicava opportuno che, prima di ogni altro titolo, ci fosse ora quello di “re dei Romani, imperatore romano eletto, sempre Augusto”; dopo potevano seguire gli altri titoli» [10].

Per quanto riguarda, invece, Ferdinando il Cattolico, questi fu: II come re d’Aragona; III come re di Napoli (1504-1516); II come re di Sicilia (dal 1468). Carlo fu: V come imperatore; I come re di Spagna; I come re di Sicilia; IV come re di Napoli; egli abdicherà nel 1556.

Torniamo alle “colonne” otrantine. Sul fusto in B (secondo da sinistra) vi sono due medaglioni scolpiti a bassorilievo. Nel primo dei due si legge inciso tutto in giro «CAROLUS REX» (Fig. 3); nel secondo «FARAO» (Fig. 4) con un’anomalia nella continuità circolare dell’ultima lettera «O» e altra, da non sottovalutare completamente, relativa alla iniziale «F», per «PH», a comporre “FARAO/Faraone”. In ogni caso, nell’ipotesi (delle due possibili, la prima è quella che prevede «FARAO» tutto attaccato) che quanto è in legenda sia da intendersi come «F[.]ARAO» (così sostenuto dalla quasi totalità della storiografia) con una ipotetica separazione fra prima lettera e quelle successive, andrebbe ricordato che «ARAO» potrebbe essere la forma tronca di «ARAONA» per “ARAGONA”. Sull’argomento torneremo in modo più approfondito a breve.

L’analisi di questi medaglioni va compiuta partendo prima di tutto dalla parte testuale (legenda) e quindi da quella grafica (l’immagine del sovrano).

Fig. 3, Otranto (Le), cattedrale, navata destra, “colonne” (fusti e capitelli) dell’altare dedicato ai Martiri precedente l’attuale, particolare del fusto in posizione B, medaglione con effigie di «CAROLUS REX».

Fig. 4, Otranto (Le), cattedrale, navata destra, “colonne” (fusti e capitelli) dell’altare dedicato ai Martiri precedente l’attuale, particolare del fusto in posizione B, medaglione con effigie di «FARAO».

La principale domanda da porsi, in merito al primo dei due medaglioni, è se quel titolo «REX» faccia semplicemente riferimento al regno di Napoli, cui la città di Otranto apparteneva. In tal caso l’estremo cronologico inferiore per la datazione delle “colonne” (o almeno di quella con l’effigie del sovrano, ma l’analisi stilistica di tutte lascia ragionevolmente pensare a un’unica data per tutte) sarebbe il 13 marzo 1516.

Come già qui anticipato, l’analisi della legenda non può prescindere da un’indagine di tipo anche artistico-iconografico, soffermandosi cioè sulla qualità del ritratto del sovrano, giovanile e imberbe.

A questo proposito andrebbe detto subito che, durante il lungo regno di Carlo, la sua immagine ufficiale si modificò in modo significativo, e cioè talmente tanto da rendere quella scolpita a basso rilievo sul fusto della colonna otrantina incompatibile con i ritratti rilevati negli anni corrispondenti alla datazione proposta da Houben ovvero, ripetiamolo, «[…] posteriore al processo informativo del 1539 e alla visita pastorale del 1538–40 […]» [11].

Fig. 5, Barthel Beham (Norimberga, 1502 – Bologna, 1540) ˂http://www.treccani.it/enciclopedia/barthel-beham/˃ (7 agosto 2018), UCL Art Museum, incisione, Ritratto dell’Imperatore Carlo a 31 anni, 1531, ˂http://www.ucl.ac.uk/museums-static/obl4he/portraits/7_the_emperor_charles_v.html˃ (7 agosto 2018)

Quanto prima trascritto [12] è utile a familiarizzare subito con quel concetto secondo cui i titoli, così come i simboli e le raffigurazioni del potere, afferiscono a un fenomeno espressivo che non può essere dettato dal caso.

Osserviamo, intanto, che nella legenda del primo medaglione manca l’ordinale. Ciò lascerebbe avanzare almeno due ipotesi: che sia sottinteso il «[PRIMUS]» o «[I]», e in tal caso sarebbe ricordato come Carlo I di Spagna, ma avrebbe poca attinenza con il contesto geo-politico cui appartiene Otranto ovvero il regno di Napoli; la seconda ipotesi, più probabile, è che quel «REX» sottintenda «[ROMANORUM]», così come compare anche sulle monete del regno napoletano. In quest’ultimo caso, di fatto, l’ordinale non avrebbe senso. Si potrebbe avanzare anche una terza ipotesi ovvero che quella legenda, ammettendo l’omissione dell’ordinale «[IV]», possa collegarsi a Carlo come re di Napoli. Fra tutti, però, il più probabile titolo sottinteso nel medaglione di cui ci occupiamo è quello più alto e prestigioso ovvero l’imperiale e questo anche per un’altra ragione, come vedremo, legata all’assenza della figura della regina Giovanna.

Fig. 6, Carlo d’Absburgo, re di Spagna, Napoli etc. 1516-1554, V imperatore dal 1519.

Carlino, D/ Busto coronato a sinistra.

Rv. «R*ARAGO:VTRIVSQ*SI:ET». Stemma a tutto campo, caricato in capo di armetta Absurgo su aquila bicipite coronata e quadripartito di Castiglia e Leon al 1° e 4°, d’Aragona- Napoli al 2° e d’Aragona-Sicilia al 3°. CNI 551. Pannuti-Riccio 27a. MIR 144/1. La «G» che si vede a destra della figura è relativa a Marcello Gazzella, zecchiere dal 1515 al 1527.

Fig. 6, Carlo d’Absburgo, re di Spagna, Napoli etc. 1516-1554, “imperatore eletto” dal 1520.
Ducato, AV 3,49 g., «CAROLVS RO – MANOR*REX» Busto giovanile coronato a sinistra, con manto imperiale. Rv. «R*ARAGO:VTRIVSQ*SI:ET». Stemma caricato in capo di armetta Asburgo su aquila bicipite coronata e quadripartito di Castiglia e Leon al 1° e 4°, d’Aragona-Napoli al 2° e d’Aragona-Sicilia al 3°; Granada in punta. CNI 46 Pannuti-Riccio 6. MIR 128 (R3). Friedberg 833a.

Per quanto riguarda la corona posta sul capo delle figure, nel primo e secondo medaglione otrantino, esse sono del tipo che possiamo assimilare a quello radiato che appare tanto nelle monete di Ferrante I, re di Napoli, quanto in quelle con l’effigie di Carlo come imperatore. Tale dettaglio, pertanto, non è risolutivo della questione.

Giacché le “colonne” di Riccardo si trovavano all’interno del Regno, ricordare il sovrano solo come re di Spagna pone qualche dubbio, si è già rilevato. La seconda ipotesi appare più plausibile, invece, perché supportata da un altro dettaglio. Come dimostrato, sia dai documenti ufficiali che dalle monete (fonte fondamentale in quest’analisi) prodotti durante il regno di questo sovrano, il nome di Carlo è associato in maniera più o meno esplicita a quello della madre Giovanna, con la quale, in realtà, egli condivise il regno fino alla morte di lei, avvenuta nel 1555.

Va rilevato, inoltre, che siamo alla presenza di un’opera, la cappella dei Martiri, cui già i predecessori di Carlo avevano lasciato una cospicua rendita annuale e che, come ricordato nella visita pastorale del 1538, era di patronato cittadino; sulle medesime “colonne” compare, infatti, più volte anche lo stemma di Otranto, città demaniale, a comunicare, con ogni probabilità, l’intervento economico, dell’Universitas Hydruntina nella costruzione di quest’opera celebrativa. Non siamo a conoscenza di altri tipi di stemmi presenti nella cappella se non quello regio (sulle inferriate di chiusura della medesima) e quello cittadino (presente anche su uno dei quattro fusti superstiti di quell’opera di Riccardo).

Il primo termine utile, ribadiamolo, per datare queste “colonne” potrebbe essere la morte di Ferdinando il Cattolico (23 gennaio 1516) e, meglio ancora, la successiva proclamazione a sovrani di Carlo e la madre Giovanna (13 marzo 1516).

La data ultima, in termini generali, è invece quella dell’abdicazione di Carlo (1556). Bisogna, inoltre, ricordare una volta di più che i simboli su un’opera come quella analizzata sono componente importante, se non addirittura fondamentale, nella “messa in scena” del potere medesimo. Riteniamo in sostanza difficile ipotizzare che l’autore del bassorilievo e dell’incisione possa aver avuto poca cura nel rappresentare e indicare (soprattutto dal punto di vista dei titoli e quindi della legenda) il re in carica in quel momento.

E’ chiaro che l’immagine di riferimento del sovrano presa a modello dall’artista era plausibilmente selezionata fra quelle in circolazione al momento della realizzazione dell’opera; per quanto riguarda, invece, la struttura espositiva dei nomi dei regnanti e loro titoli, questi ultimi sembrano essere soggetti a un aggiornamento ancora più frequente, rispetto alle immagini, dato lo scambio continuo di documenti amministrativi fra capitale e centri del regno.

Torniamo alla questione del medaglione con la figura di Carlo. A tale proposito abbiamo evidenziato anche l’improbabilità di quell’ipotesi secondo cui l’immagine del primo medaglione e della legenda a esso associata si riferisca solo al titolo regale, e questo perché, in tale caso, tanto nei documenti quanto nelle monete relative compaiono, come sovrani in carica, sia Carlo che la madre Giovanna. In termini generali non esistono ragioni per pensare all’esclusione della seconda a tutto vantaggio del figlio, proprio in virtù sia delle evidenze rilevate che del discorso esposto a proposito della “rappresentazione del potere”. Tutto ciò a meno, però, di un caso che potrebbe essere importante per sciogliere tale nodo.

Lo spazio per inserire sulla stessa colonna, vicino o meno all’immagine di Carlo anche quella della co-regnante Giovanna, infatti, ci sarebbe stato, a cominciare dal secondo medaglione. Come già accennato, un ruolo fondamentale in tale analisi è stato lo studio sulle monete, soprattutto locali, del periodo. In tale contesto si sono rilevati due aspetti che appaiono significativi a questo proposito. Il primo è legato al fatto che non sempre, in effetti, il riferimento (in legenda o immagine) alla madre Giovanna compare; ciò accade, in particolare, quando il nome del figlio è accompagnato dal titolo imperiale che solo a Carlo spettava come noto.

Altro aspetto emerso è che, sempre nelle monete del regno di Napoli (l’area geografica che qui interessa in primis), si sono riscontrati casi in cui su una delle facce (ritenuta comunemente come il recto), assieme al ritratto compare il titolo imperiale con il nome del sovrano, dall’altra, invece, quello regale con l’indicazione dei territori (ad esempio: «REX HISPANIARUM UTRIUSQUE SICILIAE»). Dal punto di vista cronologico, quindi, i riferimenti per la datazione di queste “colonne” sarebbe meglio si ipotizzassero legati alla morte del nonno paterno di Carlo ovvero Massimiliano I (12 gennaio 1519) e la successiva elezione (28 giugno 1519) e incoronazione (23 ottobre 1520) a «REX [ROMANORUM]» (quest’ultimo appellativo sarebbe sottinteso nel medaglione otrantino).

Ricordiamo per completezza che l’incoronazione da parte del papa avvenne solo il 24 febbraio 1530, anche se la prima data,1520, è quella da cui si contano gli anni dell’impero. A proposito di titoli, Carlo, prima del 1530, compare sia come «IMPERATOR ELECTUS» sia come «REX ROMANORUM» (ad esempio nelle monete del regno di Napoli).

L’assenza nel primo medaglione otrantino del solo titolo di «IMPERATOR» e, a maggior ragione, anche quella dell’ordinale («V» o «IIIII» o per esteso «QUINTUS», queste le varianti finora rinvenute) porta a ritenere, in via teorica, che la data oltre la quale le “colonne” non potrebbero essere state realizzate è proprio il 24 febbraio 1530. La realizzazione delle medesime, per tutte le ragioni fin qui esposte, potrebbe così essere collocata fra il 1520 e il 1530.

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Quest’ultima semplice valutazione, di fatto, non consentirebbe di confermare l’ipotesi [13] di Houben, secondo cui l’altare dei Martiri sarebbe stato realizzato dopo il 1538-40 (la data, secondo il medesimo studioso, scaturisce dal fatto che le “colonne” non sono segnalate nella visita pastorale compiuta, in quel periodo, dall’arcivescovo di Otranto Mons. Pietro Antonio di Capua). A tale proposito bisognerebbe, però, segnalare almeno due aspetti che riteniamo interessanti per questa indagine. Il primo è legato al fatto che in quella visita pastorale l’altare è segnalato e, seppure sempre lì non siano descritte le “colonne” in modo specifico, non significa affatto che esse non esistessero. Andrebbe ricordato, infatti, che una visita pastorale ha solo il compito di rilevare l’adeguatezza al culto di una chiesa e delle sue parti, come, ad esempio, gli altari.

Il secondo dei due aspetti cui si accennava è legato alle testimonianze della visita compiuta dallo stesso arcivescovo nel 1538 [14]; una di esse segnala [15] l’esistenza dell’altare nel seguente modo:

«[…] adsunt cratae ferreae cum stigmatibus Regis Aragonis inauratis, intus est Altare, in medio adsunt Armae Civitatis, circum circa sunt positae quindecim tabellae votivae et undecim vota argentea; supra dictum Altare sunt positae Reliquiae Sanctorum Martyrum Hydruntinorum […]».

 E proprio l’ultima parte di questo testo (unitamente a quanto già evidenziato a proposito del medaglione) – con quel suo «[…] supra dictum Altare […]», con cui si indica dove erano a quella data collocate le ossa dei Martiri – ad aprire, con le più che opportune cautele, qualche ulteriore dubbio sulle conclusioni cronologiche proposte da Houben. Un altare con reliquie esposte nella sua parte superiore -e non abbiamo elementi per dubitare che non sia proprio quello di Riccardo del 1524- sarebbe esistente, quindi, nel 1538.

A quest’analisi, come si accennava in precedenza, riteniamo utile affiancarne una seconda, ma di tipo più artistico perché con essa si potrebbero colmare alcune incertezze emerse nella prima.

L’immagine di Carlo scolpita nel medaglione otrantino (Fig. 3) è quella di un giovane imberbe, simile ad altre che compaiono nei ritratti ufficiali del medesimo agli inizi del suo regno. In termini generali nel primo medaglione dell’altare a Otranto egli apparirebbe avere 16 anni circa. A questo si dovrebbe aggiungere che i ritratti del sovrano nel corso dei primi anni del suo regno (Figg. 5, 6, 7, 8) cambiano, acquisendo quella che è l’immagine oggi più nota (Fig. 9). In rappresentazioni che lo ritraggono in occasione dell’incoronazione imperiale a Bologna egli appare, infatti, con la barba priam di tutto e poi con un taglio di capelli, in particolare, diverso rispetto a quello che lo caratterizzava all’inizio; il cambiamento potrebbe essere occorso sul finire degli anni Venti del Cinquecento. Anche tale ulteriore analisi, nell’ipotesi che l’immagine del potere abbia un senso, spingerebbe, quindi, a collocare la datazione delle “colonne” otrantine entro gli estremi cronologici in precedenza da noi fissati ovvero tra il 1520 e il 1530.

Fig. 7, Bernhard Strigel (1460-1528), Ritratto dell’Imperatore Massimiliano e della sua famiglia, dopo il 1515, 72.8 x 60.4 cm; Kunsthistorisches Museum, Vienna; l’Imperatore Massimiliano I (a sinistra) con suo figlio Filippo il Bello (in alto a destra), sua moglie Maria di Borgogna (a destra), i suoi nipoti Ferdinando I e il futuro Carlo V (in basso al centro), e Luigi d’Ungheria; ˂https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bernhard_Strigel_-_Emperor_Maximilian_I_with_His_Family_-_Google_Art_Project.jpg˃ (7agosto 2018)

Fig. 8, Barend van Orley (Brussels, ca. 1488–1541);

˂https://no.wikipedia.org/wiki/Karl_V_av_Det_tysk-romerske_rike#/media/File:Barend_van_Orley_-_Portrait_of_Charles_V_-_Google_Art_Project.jpg˃ (7 agosto 2018), ˂https://artsandculture.google.com/asset/portrait-of-charles-v/ewHJSkTHKAO0kg˃ (7 agosto 2018); olio su tavola di quercia; 71.5 × 51.4 cm; Museo di Belle Arti di Budapest.

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La gravità della situazione anche economica in cui versava la città di Otranto e la conseguente incapacità di intervenire nelle riparazioni dei danni causati dall’invasione turca del 1480 è ben espressa da un documento datato 6 novembre 1524, in cui Papa Clemente VII rispondeva a una petitio [16] accogliendo le istanze dei richiedenti e, in particolare, quella in cui essi:

 «[…] pregavano il Papa benignarsi ordinare, che la terza parte delle rendite della Mensa Arcivescovile e della distrutta Chiesa di San Nicolò di Casole, dovesse convertirsi per la riparazione e mantenimento della Cattedrale e diruta Chiesa di S. Nicolò» [17].

Il testo del documento sembra essere, però, di carattere più generale, nel senso che i fondi recuperati dagli introiti della mensa arcivescovile e della chiesa di San Nicola di Casole si specificava fossero impiegati per i restauri delle chiese della città (e non solo per la cattedrale, come sostenuto dal Maggiulli).

A proposito del rapporto fra il documento pontificio e la realizzazione delle “colonne” Cazzato scrive:

«Anche se possono essere state eseguite non immediatamente, le colonne del ciborio ricordano e trovano una ragione concreta soltanto nella bolla del 1524» [18].

Affinchè, però, si possa instaurare un rapporto diretto fra documento pontificio e altare dei Martiri sarebbe necessario almeno che l’Universitas Hydruntina fosse destinataria del provvedimento, dove peraltro l’altare non è mai citato. L’aspetto più importante, a tal proposito, è che si scriva, invece, più genericamente “[…] pro parte dilectorum filiorum Communitatis civitatis Hydrunti []”. Quanto emerge, pertanto, è che l’Universitas Hydruntina non è la richiedente dell’intervento pontificio; certo è, invece, che delle “colonne” è la committente.

Il contenuto di questo documento andrebbe, inoltre, messo in relazione con un dato iconografico da non sottovalutare: sulle “colonne” (fusti e capitelli) manca un qualunque riferimento simbolico sia all’arcivescovo idruntino dell’epoca sia, soprattutto, a Clemente VII, cosa che avrebbe avuto un senso alla luce proprio del documento se solo, attraverso esso, fossero stati raccolti e utilizzati i fondi necessari alla costruzione della cappella dei Martiri.

Nelle descrizioni della cappella oggi note (quelle cinquecentesche in primis) non si segnalano stemmi pontifici e arcivescovili ma solo quelli di tipo civico e regio.

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Un caso singolare all’interno di questa intricata vicenda, che potrebbe non avere, però, una ricaduta diretta sulla datazione delle colonne, è relativo all’altro medaglione lapideo (Fig. 4) segnalato inizialmente, quello cioè la cui legenda contiene inciso «FARAO» con le lettere, sottolineamolo, senza spazi di separazione.

Questo secondo si trova a pochi centimetri di distanza dall’altro medaglione raffigurante Carlo; benché essi appaiano appesi a cordoni decorativi diversi, la loro vicinanza potrebbe avere un significato. Nel primo, il più grande dei due, lievemente più in basso, di forma circolare e struttura compositiva simile all’altro (quattro grandi perle in corrispondenza degli assi principali, separate le une dalle altre da quattro perle più piccole), il volto di Carlo guarda verso la destra dell’osservatore; nel secondo, più in alto, il profilo dell’altro sovrano è volto, invece, a sinistra. I rispettivi sguardi puntano, però, verso un terzo medaglione collocato fra i due precedenti (anche in altezza), ancora più piccolo dei medesimi ma di forma ellittica e inclinato, con lo stemma a bassorilievo della città di Otranto; questo terzo è agganciato allo stesso cordone decorativo che sostiene il medaglione con Carlo.

Tale vicinanza, fisica e compositiva, unitamente al fatto che entrambi i bassorilievi appaiono opera dello stesso artista e plausibilmente coevi, spinge a pensare che i criteri nella redazione delle legende siano i medesimi nell’uno e nell’altro caso. Per dovere di cronaca, tratte direttamente dalla storiografia, in precedenza si sono segnalate due ipotesi per la legenda presente su questo medaglione: la prima prevede la lettura di «F[.]ARAO» (con un virtuale spazio vuoto [.] fra prima lettera e le successive unite) e l’altra di «FARAO» (senza spazio di separazione fra prima lettera e le successive). Partiamo dall’ordinale considerando, ovviamente, la prima delle due ipotesi appena enunciate. L’assenza di quel numero è perché si voleva fare forse riferimento al primo sovrano con il nome di Ferdinando (detto anche Ferrante) I re di Napoli (questa ipotesi è già presente nella nota perizia del 1771 anche se, vedremo, essa appare viziata) per le note ragioni storiche. In termini generali si deve rilevare, per completezza, che nelle monete, quelle dei periodi che riguardano quest’analisi e sempre nel regno di Napoli, il nome dei sovrani non sempre si accompagna all’ordinale. Sulla base di questi presupposti, sempre nell’ambito della prima delle due ipotesi dette, è possibile elaborare diverse soluzioni.

Le lettere capitali «ARAO», incise subito dopo la «F», potrebbero fare riferimento, così come ritenuto, ricordiamolo ulteriormente, sin dalla nota relazione del 1771, all’aggettivo “Aragonese” o più in generale “d’Aragona”. Abbiamo, in effetti, rilevato casi di monete in cui il nome del sovrano è seguito immediatamente da un aggettivo in particolare. Nella legenda di un coronato (tipo di moneta del Regno in uso negli anni di cui ci occupiamo) si legge infatti: «FERRANDUS ARAGOneus REX SICILie IErusalem» ovvero “FERDINANDO D’ARAGONA RE DI SICILIA E GERUSALEMME”. In questo caso il termine «ARAGOneus» è da intendersi quindi “d’Aragona” relativo cioè alla famiglia e non al titolo che, invece, segue nella legenda. In una medaglia realizzata da Adriano Fiorentino [19] raffigurante Ferdinando II (figlio di re Alfonso II, nipote di Ferdinando/Ferrante I, pronipote di Alfonso I) il suo nome è accompagnato dall’aggettivo «ARAGONEUS»; la soluzione «ARAGONIUS» compare, invece, nell’epigrafe incisa, datata 1490, che è collocata sulla porta maggiore del castello di Castrovillari in provincia di Cosenza [20].

E’ possibile avanzare, quindi, una prima ipotesi per la legenda del medaglione lapideo otrantino, ricordando in più l’esistenza della variante «ARAO» per «ARAONA», ovvero: «F[ERDINANDUS/ERRANDUS] ARAO[NEUS/NIUS]»; la mancanza dell’ordinale, come si accennava, lascerebbe supporre si tratti proprio di Ferdinando I d’Aragona sotto il cui regno avvenne la presa di Otranto da parte dei Turchi e la successiva riconquista nel 1481 per opera del medesimo sovrano (e del figlio di questi), il cui regno si concluderà nel 1494.

Tale ipotesi, già segnalata (ma non dimostrata), come si è detto, nel processo di canonizzazione redatto nel 1771, avrebbe un senso anche rispetto al fatto che, come pure qui già ricordato, quel sovrano, dopo la riconquista di Otranto, corrispose una dotazione annuale alla cappella dei Martiri e si distinse, così come tutto il suo casato, per il favore nei confronti di quella città attraverso sue numerose concessioni; anche, però, Ferdinando il Cattolico, chiusasi la parentesi degli Aragona-Napoli, non fu da meno, approvando una serie di grazie e capitoli, sottopostigli dalla medesima città al passaggio di quest’ultima dal dominio veneziano a quello spagnolo.

A sollevare dubbi sulla validità di questa interpretazione secondo cui «F» indicherebbe Ferrante I è, però, l’immagine del busto che è su quel medaglione otrantino, la quale non coincide, infatti, con quelle note del sovrano sia attraverso la storia dell’Arte in generale che, in modo più specifico, attraverso le monete, fra cui anche quelle cronologicamente vicine al 1480.

Il volto di questo re è, infatti, molto più tondeggiante; diversa è anche l’acconciatura. Se valida non fosse l’ipotesi dell’ordinale, la «F» iniziale potrebbe alludere anche al nipote di Ferrante I ovvero Ferrante II (Ferrandino, figlio di Alfonso II), sempre d’Aragona, oppure all’ultimo sovrano di questo casato, Federico I [21]. Anche in questi casi, però, l’immagine del medaglione non coincide con le raffigurazioni che è stato possibile identificare di questi ultimi sovrani.

A rigore, poi, quell’«ARAO» – solo ipotizzabile nonostante la detta vicinanza alla prima lettera forse indicativa del nome del sovrano- potrebbe intendersi anche in termini più ampi (nulla al momento possiamo dire, infatti, sulla libertà dell’artista in fase di esecuzione né sul livello di completezza dell’incisione stessa) se associato almeno al titolo di «REX», quale indurrebbe a pensare la corona che ha sul capo, intendendolo cioè come abbreviazione del regno d’Aragona ovvero «ARAONAE» (e sue varianti).

Così facendo, quindi, potrebbe riferirsi anche al re Ferdinando il Cattolico, nonno materno di Carlo d’Asburgo, che a quest’ultimo passò, tra gli altri, proprio, in particolare, il titolo di re delle Due Sicilie (Napoli e Sicilia). Anche in questo caso, però, si rilevano differenze rispetto alla figura (per l’acconciatura non meno che per il volto: collo lungo senza doppio mento) che appare usualmente nelle monete del re Cattolico. L’immagine nel medaglione otrantino ritrae, quindi, una figura diversa rispetto a quanto visibile nelle monete con quel Ferdinando anche quando questi fu sovrano di Napoli (1504-1516).

Al di là dei dettagli già descritti, ciò che, però, colpisce maggiormente di questa figura ritratta nel medaglione otrantino è il profilo –per certi versi simile a quello di Ferdinando, fratello più piccolo dell’imperatore, e a quello del re Cattolico- che lascerebbe intuire un abbastanza stretto rapporto di parentela con Carlo dell’anonimo sovrano rappresentato.

Tale questione, però, non può dirsi chiusa in modo certo né sembra convincente, a dire il vero, nelle sue varianti qui elencate. Dell’interpretazione su cui ci siamo a lungo soffermati fino ad ora abbiamo cercato – in una reductio ad absurdum – di mettere in evidenza tutte le sue caratteristiche individuabili come fosse l’unica possibile e cioè: la legenda di quel medaglione si è supposto essere «F[.]ARAO» con l’iniziale (“come fosse” staccata dal resto) a indicare il riferimento a un predecessore di Carlo e forse addirittura a Ferrante d’Aragona in carica nel 1481 quando la città fu riconquistata.

Questa interpretazione è già presente, si è detto, nella relazione descrittiva di quelle “colonne” redatta nel 1771, con l’unica differenza, e qui è il vizio di forma cui si accennava in precedenza, che Nicola Grassi, il perito, lesse solo «ARAO» perché, forse, l’iniziale «F» era coperta da una scialbatura o dalla doratura (in ogni caso oggi entrambe non sono più rilevabili in questo medaglione). L’indagine iconografica, qui condotta, con l’unica eccezione relativa al profilo del ritratto da intendersi solo come una extrema ratio, ha dimostrato, invece, che quello rappresentato non corrisponde né all’immagine ufficiale di Ferrante d’Aragona né a quella di altri sovrani dello stesso casato, così come appare diversa anche dai ritratti di Ferdinando il Cattolico. Il collo lungo, l’acconciatura e lo stesso abbigliamento ne sono gli elementi caratterizzanti e distintivi, lo abbiamo già sottolineato. Questa differenza porta a riconsiderare la legenda e il modo in cui essa è realmente incisa: «FARAO», e cioè senza spazi vuoti tra le lettere. A questo proposito, come già in precedenza accennato, non è tanto l’anomalia secondo cui «F» ha sostituito «PH» -per comporre il sostantivo, espresso al nominativo così come il «REX» nel vicino medaglione con il ritratto di Carlo, «PHARAO» ovvero “FARAONE”- quanto soprattutto il fatto che tra la «F» iniziale e le successive lettere non ci sia uno spazio a distinguere (anche in assenza dei punti di separazione generalmente usati proprio per tale ragione) la prima parola abbreviata «F» dalla seconda tronca «ARAO». Accettare l’ipotesi che «F» stia per l’iniziale del nome di un sovrano comporterebbe accettare che il redattore di quell’incisione abbia commesso almeno due anomalie: sostituire «F» a «PH» per «PHARAO» (termine che compare inciso, ma al genitivo, sul medesimo fusto in un altro medaglione); attaccare la medesima iniziale alle lettere seguenti, «ARAO», là dove c’era, come appare evidente, e c’è lo spazio per consentire di distinguere le due parole «F» e «ARAO» e addirittura, nell’ambito di questa ipotesi, scrivere per esteso l’intero nome di «[FERRANDUS ]» o «[FERDINANDUS]». Perché quindi non incidere nella legenda, che offriva e offre visibilmente ampio spazio, il nome del sovrano che svolse un ruolo così importante in tutta la vicenda? Il carattere retorico di questa domanda è impressionante tanto più se consideriamo che scrivere il nome per esteso nella legenda avrebbe tolto ogni sorta di dubbio, anche rispetto all’ipotetica difficoltà dell’artista di reperire la fedele immagine del sovrano raffigurato in quel secondo medaglione.

Da ultimo, ma non lo possiamo considerare alla stregua di un vero e proprio errore, poniamo l’attenzione sull’assenza dei tradizionali punti di separazione (di varia foggia e composizione), espediente usato, dobbiamo sottolinearlo ancora, proprio quando lo spazio nella legenda è insufficiente rispetto alla lunghezza del testo da riportare. Ritornando, infine, all’analisi iconografica c’è da rilevare che la corona radiata che sormonta il capo di questo personaggio è compatibile con quella usata da un sovrano orientale quale era un faraone.

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Sulla base di quanto appena riportato quello, fra i quattro fusti, che è oggi in posizione B potrebbe assumere un significato chiave per la comprensione stessa dell’intero complesso narrativo delle quattro “colonne” e dell’intero altare reliquiario. Si è già evidenziato, e ampiamente discusso, del medaglione raffigurante l’allora giovane Carlo, plausibilmente nelle vesti d’imperatore eletto.

Quest’ultimo è collocato su quel fusto in posizione non casuale: è, infatti, simmetrico, rispetto all’asse frontale verticale, ad altro simile per dimensioni e forma raffigurante il carro guidato da un «AURIGA». Naturalmente siamo alla presenza di una sineddoche (per immagini) dove il carro e chi lo guida stanno per tutta l’armata egizia che si lanciò all’inseguimento del popolo d’Israele quando quest’ultimo attraversò il Mar Rosso. Da rilevare che, sempre sul lato sinistro della medesima colonna (per chi guarda), è la rappresentazione, in un medaglione a bassorilievo, dell’allegoria della Prudenza (con ancora tracce di doratura), dote che evidentemente, anche per volere divino, mancò all’incauto faraone nel momento in cui inseguì gli Ebrei.

La fine di quell’esercito è nota. Viene da sé il parallelo fra la sconfitta degli Egizi e quella dei Turchi nella riconquista di Otranto da parte di Alfonso II d’Aragona nel 1481. La figura di Carlo, attraverso il medaglione posto vicino all’altro con l’incisione «FARAO», riteniamo non sia solo l’espressione del tributo al sovrano regnante al momento della realizzazione delle “colonne”; ciò soprattutto se mettessimo la presenza di Carlo in relazione con l’articolato, ricco, a tratti complesso iter narrativo delle quattro “colonne”. Chiaramente l’aspetto appena evidenziato assumerebbe una maggiore rilevanza là dove fosse dimostrato una volta di più che il «FARAO» presente nell’altro medaglione dovesse alludere al “faraone” (ipotesi per la quale propendiamo anche sulla scorta del fatto che si è riscontrata, all’epoca circa della realizzazione delle “colonne”, la variante «FARAO» per «PHARAO»; c’è da rilevare che la storigrafia fino ad oggi non si era mai occupata di tale questione in modo sistematico) e non a un sovrano predecessore sul trono di Napoli. La mancanza sulle “colonne” di un riferimento a un altro sovrano aumenta così l’importanza della figura di Carlo e orienta la lettura dell’altare di Riccardo verso un significato della sua finora inaspettato a tratti inedito. Così facendo il ruolo dell’imperatore, come difensore della Fede Cattolica, contro gli infedeli (e forse anche gli eretici, verrebbe da aggiungere) sarebbe un messaggio più che chiaro. Assistiamo, quindi, non solo all’attualizzazione della vicenda bellica (le guerre contro i Turchi, allora nel 1480 così come ai tempi di Carlo) ma anche di quella biblica: l’altro esodo, quello delle ossa dei Martiri, trova, infatti, conclusione definitiva nel 1524, e cioè circa quaranta anni dopo il suo inizio nel 1480, così come gli Ebrei alla fine del loro viaggio pure quarantennale, trovarono la Terra promessa.

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Non abbiamo elementi per affermare che l’ideazione iconografica delle “colonne” sia da assegnare solo a Riccardo. Per la singolarità del messaggio che emerge non si può escludere, infatti, neppure il contributo di una singolare figura come quella del francescano Pietro Colonna detto il Galatino; tanto più alla luce del fatto che egli, proprio nel 1524 [22], ritornò nella città natale Galatina (Lecce), arcidiocesi di Otranto. Non può sfuggire che fra le sue opere esiste un commento all’Apocalisse, dedicato a Carlo V, nel quale si citano proprio i tragici eventi di Otranto e l’imperatore è

 «[…] esortato a recidere il settimo capo della bestia, cioè l’islamismo, e a ricondurre tutti i popoli al cristianesimo» [23].

Dal punto di vista del progetto architettonico è, infine, interessante rilevare un aspetto della struttura compositiva delle “colonne”, là dove, cioè, il cerchio -uno degli elementi fondamentali della narrazione- è usato dall’artista ora come cornice di un episodio biblico ora come semplice intreccio di elementi vegetali. In questo agire Riccardo potrebbe essersi lasciato influenzare, nella ricerca forse di un rapporto più stringente con il contesto architettonico e sacro in cui l’opera sarebbe stata collocata, dalla simile decorazione del pavimento della stessa cattedrale idruntina, a cominciare dai cerchi, contenenti figure, che decorano sia il pavimento del presbiterio che quello della navata maggiore dove, in particolare, sono collocati a destra e sinistra del tronco del grande albero centrale; oppure, e forse in modo ancora più diretto per via della posizione, l’ignudo che, a braccia alzate, sostiene un disco in pietre colorate.

Quest’ultimo è sull’asse mediano dell’ala destra (anche in tale caso, ma solo nella parte finale della navata corrispondente al transetto destro, è raffigurato al centro un albero, ancora forse un pero come in quella maggiore, a giudicare dalla forma dei frutti, per segnare l’asse mediano, compositivo e narrativo dello spazio) a ridosso dell’ingresso della cappella dei Martiri. La nudità di quella figura, le sue braccia alzate e aperte verso l’alto (per sostenere un colorato disco), a livello d’idea, ritornano simili in due figure presenti su altrettante delle quattro colonne (quelle in B e C) instaurando fra l’opera di Riccardo e il celebre mosaico pavimentale (1163-65), opera del presbitero Pantaleone, un interessante rapporto di continuità figurativa e forse non solo.

 

Note

[1] Grasso F., Otranto 1524 Storie di santi falsari e il giallo delle epigrafi, ˂http://www.salentolive24.com/2018/08/03/otranto-1524-storie-di-santi-falsari-e-il-giallo-delle-epigrafi/amp=1 ˃ (5 agosto 2018)

[2] HOUBEN H., Gabriele Licciardo (Riccardi) una figura enigmatica del Barocco leccese, in “Kronos”, 2005, n. 9, pp. 167–178

[3] Idem, p. 170

[4] BRANDI K., Carlo V, Torino, Einaudi, 2001, p. 49

[5] Idem, p. 51

[6] Idem, p. 50

[7] Idem, p. 99

[8] Carlo V impertatore, ˂http://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-v-imperatore/˃ (1 agosto 2018)

[9] Ibidem

[10] BRANDI K., Op. cit., p. 101

[11] HOUBEN H., Op. cit., p. 170

[12] BRANDI K., Op. cit., p. 101

[13] HOUBEN H., Op. cit., p. 170

[14] ANTONACI A., I Processi nella causa di beatificazione dei martiri di Otranto (1539–1771), Lecce, Editrice Salentina, 1962, p. 175. L’autore segnala (p. 175) di trarre la trascrizione della visita pastorale del 1538 dal Summarium Informationis. La visita pastorale dell’arcivescovo otrantino Pietro Antonio de Capua, oggi consultabile presso l’Archivio Storico dell’Arcidiocesi di Otranto, consta di due volumi manoscritti. Nel primo (c. 11) è la visita che lo stesso Antonaci trascrive a p. 221 della sua opera; nel secondo, invece, alla c. 136, è un’altra descrizione della medesima cappella. Antonaci, nel segnalare la fonte (p.175) di quella che egli trascrive (p.175) indica addirittura la medesima carta (136r) della visita pastorale del 1538 (17 settembre) ma, di fatto, le due versioni non coincidono. Quando, infatti, la visita che è oggi presso l’Archivio Storico Diocesano di Otranto affronta il tema della custodia delle ossa dei Martiri così si esprime:

«[…] ad cappellam que est in capite / dicte ecclesie in latere dextro sub titulo Sancte Marie / de Martiribus. Sunt in catastro ipius cappelle / ossa mortuorum qui pro Christi nomine dimicaverunt contra Turchos».

Non compare, quindi, così come nella versione segnalata da Antonaci (p. 175) quel «[…] supra dictum Altare […]» relativo al luogo di custodia delle ossa. Dalla stessa visita pastorale manoscritta non abbiamo notizie relative a ossa custodite in altri luoghi della medesima cattedrale; l’espressione «in catastro», così come usata, lascia intendere l’esistenza di una “struttura” che, costituita da un unico elemento riconoscibile (tant’è che si usa il solo termine catastrum) e appartenente alla cappella, era destinata alla custodia e, evidentemente, anche all’esposizione delle ossa per motivi devozionali. Data la grande quantità di ossa, e le dimensioni della cappella originaria, non eccezionalmente grandi, non è da escludere che l’ossario fosse collocato proprio sopra l’altare.

[15] Ibidem

[16] UGHELLI F., Italia Sacra sive de episcopis Italiae, et insularum adiacentium, Venetiis, apud Sebastianum Coleti , 1721, IX, colonne 61- 64. Il volume è scaricabile gratuitamente al seguente link: https://books.google.it/books?id=LZNYe3WzMm0C&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false (7 agosto 2018)

[17] MAGGIULLI L., Otranto ricordi, Lecce 1893, p. 198

[18] CAZZATO M., La prima attività di Gabriele Riccardi: le colonne dell’altare dei martiri nella Cattedrale di Otranto (1524), in “Sallentum”, n. 1-2-3 (gennaio-dicembre 1989), pp. 47-70: 55

[19] Ferdinando II di Napoli, ˂https://it.wikipedia.org/wiki/Ferdinando_II_di_Napoli#/media/File:Adriano_fiorentino,_medaglia_di_ferdinando_d%27aragona_principe_di_capua.JPG˃ (12 agosto 2018)

[20] Castrovillari ˂https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/8/82/Castrovillari_Castello_Aragonese_dettaglio_dell%27effige_sulla_facciata.JPG˃ (12 agosto 2018)

[21] CORTESE N., Federico I d’Aragona, re di Napoli, in Enciclopedia Italiana (1932), ˂http://www.treccani.it/enciclopedia/federico-i-d-aragona-re-di-napoli_%28Enciclopedia-Italiana%29/˃ (12 agosto 2018)

[22] COLOMBERO C., Colonna Pietro, ˂http://www.treccani.it/enciclopedia/pietro-colonna_res-0a1bcb2e-87eb-11dc-8e9d-0016357eee51_%28Dizionario-Biografico%29/˃ (12 agosto 2018) dove in particolare si legge: «Rientrò due volte nella città natale, nel 1524 e nel 1536: la prima volta in relazione ai tentativi dei suoi concittadini di fare elevare Galatina a sede di vescovato da assegnare a lui come primo vescovo» [22]

[23] Ibidem, «Sicuramente composto l’anno successivo è il De septem Ecclesiae tum temporibus tum statibus, dedicato al cardinale Francesco Quinones: vi si tratta delle sette epoche corrispondenti a sette diverse condizioni della Chiesa; vi è citato Lutero, “haereticoruni pessimus“. Argomenti analoghi sono trattati nel De Ecclesia destituta e nel De Ecclesia restituta, entrambi anteriori al 1524, nei quali, attraverso l’interpretazione delle profezie bibliche e medievali e del senso mistico dei Salmi e dell’Apocalisse, si discute delle calamità della Chiesa e della sua futura riforma, da attuarsi mediante il ritorno allo stato originario. Sempre su questa linea di interpretazione allegorica delle Sacre Scritture si pone il commento all’Apocalisse, del 1524, composto per suggerimento del cardinale Quinones e dedicato a Carlo V, esortato a recidere il settimo capo della bestia, cioè l’islamismo, e a ricondurre tutti i popoli al cristianesimo»

Ringraziamenti

Arcidiocesi di Otranto, Arcidiocesi di Lecce, Archivio di Stato di Lecce, Archivio di Stato di Bari, Biblioteca Arcivescovile “Innocenziana” -Lecce-, Biblioteca Arcivescovile “Annibale de Leo” -Brindisi-, Biblioteca Provinciale “Nicola Bernardini” -Lecce-, prof. Franco Contini, Enrico Spedicato, Dott.ssa Lorella Ingrosso, Dott.ssa Katiuscia di Rocco, Clorinda Stefanelli, Dott. Luigi de Luca.