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Io Ci Provo in scena al Paisiello con “L’ultima cena di Alfredo Traps”

Un motocarro Ape sbanda al rallentatore entrando nel parcheggio del carcere di Lecce, tutt’intorno a Borgo San Nicola lampeggia un’altra primavera, la natura inselvatichita della periferia che sta in riva ai lombi della città barocca qui sbianca per l’ossatura monolitica dell’altra città, invisibile e scarna, fatta di cemento e ferro, fatta di storie che si inanellano come cerchi nell’acqua, restando spesso inascoltate e tavolta trasfigurate da una costante militanza, da un esercizio quotidiano della bellezza e che, in questo caso, ha i connotati ormai inconfondibili del laboratorio teatrale della Compagnia Io Ci provo diretta da sei anni dalla regista Paola Leone. Questa donna minuta, con capelli da indigena bianca, una bambina senza età, tenace e paziente come una madonna antica, giunta da Taranto a innescare un Rinascimento che non si nutre di proclami e conferenze stampa, né tanto meno di finanziamenti pubblici e caste più o meno consolidate, anzi è scevro da supporti e sopravvive in forza di se stesso,  propone un teatro che sembra nato da una costola della parola pasoliniana, neanche troppo sottinteso l’intento se si pensa al recente omaggio “PPP Prigione Pietà e/o Porca Puttana Pasolini“, uno spettacolo che ha rivoluzionato gli spazi carcerari della sezione maschile R1 ed R2 trasformandoli in un labirinto di scene e quadri teatrali per monologhi cesellati, diamanti purissimi scagliati contro il pubblico che ha avuto il privilegio di assistere alle 50 repliche capaci di oscurare qualunque altro titolo nei pure interessanti cartelloni dei teatri pugliesi.
Un motocarre Ape, dicevamo, approda nello spiazzo della Casa Circondariale, è questo è un fatto: attracca come una barchetta tra due automobili parcheggiate, oggi è giorno di visite e quindi di famiglie in processione per incontrare i propri cari – un fratello, un padre, una reclusa, un corpo indeducibile mentre le stagioni si susseguono come sempre – ed è anche giorno di prove per la Compagnia che ha ripreso in mano, letteralmente, la drammaturgia praticamente perfetta de “L’ultima cena di Alfredo Traps“, tratto dal racconto La panne di Fredrich Durrenmatt, pronto a tornare in scena il 6 Aprile al Teatro Paisiello di Lecce, nell’abito della Stagione di prosa del Teatro Pubblico Pugliese.
Uno degli straordinari interpreti dello spettacolo guida quel motocarre Ape scalcagnato, macchiato di calce, giunto sin qui da uno dei cantieri-alverare della città presa dai fatti della vita e votata ad una certa predisposizione ad ignorare la vita “monastica” dei detenuti – mentre furoreggia la velocità del 2017 – le vite degli altri, degli attori, ragazzi di vita, iniziati all’amore per il teatro dalla disciplinata poesia del fare che Paola Leone rende quotidianamente, anche a riflettori spenti, un atto politico necessario, radicale e salvifico non solo per chi abita una cella, ma soprattutto per chi si crede libero solo perché non è mai stato processato e condannato.
Insieme a lei, dopo una colazione frugale con indosso un paio di occhiali da sole scuri, e dopo un acceso scambio di punti all’ordine del giorno – da discutere dopo con gli attori e valutati sempre prima con il suo fedele braccio destro, l’aiuto regista Antonio Miccoli – osserviamo Alessio Pallara scendere dall’abitacolo minuscolo di quel motocarro Ape, coi jeans da lavoro, la faccia sorridente di ragazzo che non invecchia perché ha ancora gli occhi pieni di cieli messicani e aneddoti da snocciolare nelle mani callose di chi sa cosa vuol dire tirar su ed imbiancare le mura di una casa. Ed eccolo Alfredo Traps, ci viene incontro mentre Paola Leone riflette a voce alta “Un uomo che torna in carcere pur di provare la sua parte, a bordo di quell’Ape, ditemi se non sembra l’inizio di un film.“, eccolo il protagonista di questa storia scritta da Durrenmatt e riadattata da Mariano Dammacco e Paola Leone che seguiamo sino alla portineria del carcere e poi, dopo le procedure rituali, sin dentro alla Sala Polivalente del carcere, un luogo che quest’anno la Compagnia Io Ci Provo punta a trasformare in un teatro vero, proprio come il sogno del burattino di legno più amato della letteratura, Pinocchio, di farsi bambino in carne ed ossa, dio incarnato.
 Di solito, le prove della Compagnia si svolgono nel pomeriggio, stamattina è un’eccezione, la luce forte del sole vince la pesantezza delle grate, c’è da allestire le quinte di scena, predisporre il tavolo che fa da sfondo a “L’ultima cena di Alfredo Traps”, indossare i costumi (a cura di Lapi Lou) e rifinire le battute. Ma ieri, Alessio Pallara ha saltato il turno di prova per via del lavoro che lo ha trattenuto al cantiere, tutto ciò potrebbe voler dire che oggi il resto della Compagnia è teso perché mancano pochi giorni allo spettacolo e questi signori esigono da se stessi molto più di qualunque altro professionista. Giganti elegantissimi, a tratti tragicomici. Specie quando c’è da raccontare una favola grottesca nata da un imprevisto, il guasto di una macchina che porta il suo antieroe a diventare la vittima designata di una cena trasformata per gioco in uno spietato tribunale in cui echeggia una domanda furiosa: “Di cosa siamo vittime, di cosa siamo carnefici? Quanto possiamo fare in quanto uomini di fronte al caso?”. Una riflessione inevitabile nasce dalle parole di Jules Clarenson che fanno da esergo alla brochure ufficiale dello spettacolo: “Da quale cervello feroce impazzito di rabbia/ da quale spirito sadico vigliacco e snaturato/ nasce l’idea terribile della gabbia/ dove l’uomo rinchiude e lo tiene murato?“.
Insieme ad Alessio Pallara, gli attori Gaetano Spera (nel ruolo del giudice), Maurizio Mazzei, Fiodor Gjoni (nel ruolo dell’avvocato difensore), Giovanni Partipilo, Daniele Falanga e Maria Cucurachi (che è stata scelta da Paola Leone per essere la voce narrante della storia e si confronta con le prove giungendo dal mondo esterno), indossano i costumi di scena, preparano un caffè ed iniziano a provare, una, due, tre volte, in una manciata di ore, concentrati, affilati, mentre la luce del giorno brancola intorno al loro bisogno primario: dare il massimo, essere tutta la bellezza che anche stavolta il pubblico non si aspetta di veder traboccare alla stregua di un canto gregoriano che si innalza sopra ogni altro rumore di fondo, dentro un carcere di massima sorveglianza, mentre il personale penitenziario va e viene, le porte si aprono e si richiudono a chiave sotto i neon accesi e restano pochi minuti per una sigaretta tutti insieme.
  Il teatro, così come lo spazio generato dalla lettura di un libro, l’ascolto di una musica degna di questa definizione, è uno dei rarissimi luoghi in cui l’essere umano partecipa ad una Resistenza infinita contro tutta l’atrocità che è stato capace di concepire ed infliggersi. “Il principio secondo cui decido è questo: la colpevolezza è sempre fuori discussione“: questa frase viene dal discorso dell’ufficiale all’esploratore e si trova nel racconto “Nella colonia penale” di Kafka, racconta del condannato da sottoporre a una macchina di supplizio ed è alla base di una pratica penale che, malgrado il formale riconoscimento di innocenza presunta stabilita dal codice, fa leva più sulla colpevolezza per definizione.
  “L’ultima cena di Alfredo Traps” è in cartellone al Paisiello proprio nella settimana che precede la Pasqua e, inevitabilmente, rimanda ad un’altra cena, un altro povero Cristo condannato da uomini e donne di un tribunale ai quali De André cantava: “Se fossi stato al vostro posto, ma al vostro posto non ci so stare.” A questo serve il teatro, di questa letteratura e di questi attori abbiamo un assoluto bisogno, “Non si tratta di definire una giustizia ideale“, spiega la nota ufficiale riportata dietro la locandina dello spettacolo (progetto grafico di Simone Miri), “si tratta piuttosto di seguire le strade tortuose, spesso feroci, lungo le quali la giustizia trova la sua realizzazione.”
Capita talmente di rado di poter assistere alla prove di una Compagnia, figuriamoci di questa, ed è come testimoniare le riscritture, l’editing di un volto, di una mano che satura un gesto, un corpo che accenna un passo di tango, un quadro di attori che sembrano muoversi dentro una simmetria ed una luce pensate da Giotto.
  Terminate le prove, la regista Paola Leone legge alla Compagnia le note, come un allenatore intransigente e materno negli spogliatoi, la carrellata degli sguardi sospesi a mezz’aria è degna di una pagina che a Pasolini sarebbe tanto piaciuto scrivere. Giovedì 6 Aprile è dietro l’angolo, grazie all’Articolo 21 che rende possibile il lavoro della Compagnia fuori dal carcere con il supporto della scorta, gli attori di Io Ci Provo faranno ritorno al luogo che meritano: un teatro vero, con un sipario vero, il buon vecchio Paisiello incastonato nel centro storico con la sua dignità di capo tribù in una città in cui i teatri non mancano, ma che aspettano ancora di essere davvero spazi aperti e non solo su un piano formale. Fortunato il pubblico che in questi giorni si sta procurando i biglietti, in vendita al Castello Carlo V, per assistere alla riproposta di quest’opera che ancora una volta porterà in scena meravigliosi attori, peculiarmente umani, perciò capaci di essere non solo i personaggi che indossano, ma anche gli stati di grazia che il lavoro attoriale a tutti noi rimasti chiusi fuori, per mezzo di essi, rivela.